Rispetto al repertorio del disco d'esordio, quasi interamente originale, la seconda prova del duo Dillard & Clark consiste prevalentemente in covers. Per tal ragione si ritiene doveroso non avventurarsi in voli pindarici dando la precedenza all'aspetto tecnico-esecutivo, nonché stilistico, di "Through The Morning, Through The Night".
La premiata ditta Dillard & Clark - più Leadon, metà Byrds originali e quattro quinti Flying Burrito Brothers, ovvero quella che poi, assieme a tutta una serie di sessionmen, fu collocata in un calderone nominato "the Byrds family" -, compie due passi avanti rispetto al predecessore, ciascuno dei quali in una direzione diversa, anzi opposta. Esegue, infatti, prevalentemente più bluegrass che nella "Expedition" ed al contempo suona più elettrico dell'anno prima.
Doug Dillard vuole lanciare la fidanzata come vocalist e la cosa non piace a Bernie Leadon, che si limiterà a svolgere il compitino senza scrivere una nota e poi dirà addio. Anche Dillard non partecipa alla fase creativa, ed al povero Gene non resta che attingere al proprio repertorio ed affidarsi ai padri del genere. E quando dico padri... intendo Bill Monroe, ovvero il leader dei Blue Grass Boys, band da cui il genere prese origine e nome; intendo il superduo Reno & Smiley, l'uno vocalist l'altro suonatore di banjo, praticamente il duo cui D&C s'ispirarono; intendo ancora l'inno "Rocky Top" dei consorti Bryant...
Suadente l'opener "No Longer A Sweetheart Of Mine", melodia standard della tradizione e cavallo di battaglia di Reno & Smiley, qui resa più accattivante e tonica dal nuovo arrangiamento. "Rocky Top", cantata, com'è giusto che sia, da voce di donna, ovvero la fiancée di Dillard, è eseguita alla velocità di punta del sidecar. Un altro po' più veloce e sarebbe stata buona per Alvin Superstar. Nell'altro classico "Four Walls", il duo non trasforma il country in countryrock bensì in poprock americano. Persino cosmic american poprock, se avesse avuto più pedal steele e meno fiddle.
Sul fronte dei brani originali, seducente o no, non si può certo dire che Gene Clark non sia fedele a se stesso: prendiamo la titletrack, spogliamola del farcito arrangiamento, lasciamo solo un'acustica e perché no?, visto il personaggio in questione anche un tambourine: è folk, è la perfetta Clark's song. Si vede subito che Gene, vuoi o non vuoi, ha un'altra estrazione, un altro approccio, altrettanto americanissimo ma distante dal country. "Corner Street Bar", poi, non si sa sia una marcetta boogie od un hillybillie rock. Il tutto risulta bello e confuso. Ma ecco che Eugenio si riscatta immediatamente con la superlativa "I Bowed My Head And Cried Holy", perfetto eempio di quel country cotemporaneo (coevo) che Clark, sulla carta, non sarebbe stato in grado di scrivere.
E se "Kansas City Southern" è una quasi perfetta Byrds' song - ci fosse stato il jingle jangle di McGuinn al posto del banjo di Dillard -, è pur vero che "Polly", meraviglia tra le meraviglie, sarà ripresa assieme alla titletrack da Alison Kraus e Robert Plant nel loro suggestivo "Raising Sand". Ascoltandola, non provo alcun interesse di sapere se, magari almeno per un attimo nella sua esistenza, Gene Clark sia stato per davvero un artista country, così come trovo di poco conto chiedermi perché l'ultima traccia sia "Don't Let Me Down" dei Beatles, altra delicatessen molto incline al nostro tambourine man. Mi basta pensare che tutti questi passaggi, il folk rock, il beat, la psichedelia, il bluegrass, altro non furono che tappe verso la liberazione dell'ispirazione di un superlativo autore ed interprete, che dunque sperimenterà tutti i suoi coraggi, dando vita al superacustico "White Light" ed a "No Other", in cui abbraccia tutto il pop chitarristico con un approccio personalissimo e formule rivoluzionarie. Senza contare il valido, uscito soltanto per l'Europa, disco di transizione "Roadmaster".
Il giro del sidecar, dunque, finisce qui. La benzina era finita. Ma se hai le ali come il Byrds la cosa non è poi così grave.
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