Domandarsi perché, quando cade la tristezza in fondo al cuore, come la neve, non fa rumore, è un esercizio sterile.

Perché, invece, un rumore, lo fa, eccome.

E questo rumore è il Quartetto n. 15, op. 144, di Dmitri Dmitrievich Shostakovich.

Mosca, ospedale di Kuntsevo – febbraio 1974

Poi, il giorno. Che ti arriva addosso con la luce metallica del mattino russo, e filtra dalla fessura cattiva d’una tapparella. E il rumore dei sandali d'una infermiera, e il sapore dell’analgesico della sera prima che ti invade la gola. E un uomo, infine. Un uomo, seduto sul bordo di un letto, disfatto, lui e il letto, con della carta pentagrammata in una mano e la testa nell’altra.

Quest’uomo, rattrappito su questo letto di questa stanza di questo ospedale di questa città, che si chiama Mosca.

E’ il primo a svegliarsi. Si volta su un fianco, la mano raggiunge a fatica il comodino, beve un bicchiere d’acqua. Uno dei tanti gesti di queste sue giornate che compie con l’automatismo di un antico rituale ormai afflosciato. Non ha sete, ma beve perché così ha sempre fatto. Con lui, altri tre uomini, alle prese con la stessa alba, con le stesse mani che si abbarbicano alle stesse lenzuola, che faticano per raggiungere lo stesso comodino e bere lo stesso insensato bicchiere d’acqua. Nella stessa città, nello stesso ospedale, nella stessa stanza. Vecchi, miserabili e torpidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo.

E fuori, l’inverno sovietico del 1974.

C'è un momento in cui sei solo quando sei arrivato in fondo a tutto quello che ti può capitare. E' la fine del mondo. La stessa pena, la tua propria, non ti risponde più. E bisogna tornare indietro allora, tra gli uomini, non importa quali. Uno non fa il difficile in quei momenti perché anche per piangere bisogna ritornare là dove tutto ricomincia, bisogna ritornare con loro.

E quest’uomo, dunque, ritorna con loro. Tra gli uomini. Non importa quali.

Con tre ricoverati identici a lui del reparto di cardiologia di un ospedale moscovita, dove resta per qualche mese, il tempo di scrivere l’ultimo dei suoi quindici quartetti: l’ultima riflessione sulla Morte e sulla sconsideratezza di tutto questo.

Non sappiamo nulla di questi tre uomini, come dei ladroni crocifissi insieme a Gesù. Cosa li avesse portati in quell’ospedale, che mestiere facessero, cosa avesse rese felici le loro giornate, cosa pensassero di quest’uomo. L’unica cosa che li unisce è il perimetro della stanza in cui si trovano, e una inattesa dimestichezza con la prossimità della Morte. Uno dei tre può averlo insultato per le sue connivenze con la causa bolscevica: Non sei tu Shostakovich? Salva te stesso e anche noi; un altro, invece, deriso per le umiliazioni che dovette subire per non essersi piegato alla causa bolscevica. Un altro ancora difeso, apostrofando il suo vicino di letto con un “Non hai alcun timore, tu che sei condannato alla stessa pena?”

Di quest’uomo, invece, sappiamo tutto. Del suo essere il più grande compositore vivente del tempo, del suo rapporto con Stalin, delle sue difficoltà col regime sovietico, che lo considerava un traditore, delle sue difficoltà con gli antagonisti del regime sovietico, che lo consideravano un traditore. Si dice che girasse per San Pietroburgo con una valigia contenente lo stretto necessario in caso di deportazione e che dormisse sul pianerottolo della sua abitazione per far sì che, quando la polizia segreta avesse deciso di arrestarlo, non facesse irruzione in casa, disturbando la sua famiglia. Fu Woody Allen, in uno dei suoi formidabili libretti d’inizio carriera, a dire: “E’ difficile satireggiare qualcuno che ti tiene la suola degli stivali sulla faccia”. Eppure è esattamente quello che fece quest’uomo per tutta la vita.

Fu così che quest’uomo decise di rifugiarsi nei quartetti, l’unico luogo sicuro, in cui nessuno poteva dirgli niente. Un quartetto è la composizione che somiglia di più a parlare da soli. Ed è nei quartetti, che si può ascoltare la voce più vera di quest’uomo.

E allora, giunto sul passo estremo della più estrema età, quest’uomo decide di liberare la sua voce più vera, che somiglia a quella del violoncello, insieme a quella dei suoi tre compagni di stanza, che insignisce dei gradi di primo violino, secondo violino e viola. Tutti e quattro, in un faccia a faccia con la Morte, ciascuno con le sue paure, i suoi smarrimenti, le sue incapacità, le sue cose da dirle.

Da sonare in modo che le mosche cadano morte a mezz'aria e il pubblico lasci la sala per pura noia, lasciò scritto quest’uomo come raccomandazione per l’esecuzione del primo movimento, che si spegne impercettibilmente in un “morendo”, indicazione ricorrente in tutti gli altri movimenti. Il primo a parlarci della sua morte è il violino. Da solo, in una staticità e una solitudine che fanno spavento: nella camera sembrava come uno straniero adesso, che veniva da un paese spaventoso e uno non osava parlargli.

Gli altri, sperduti, han bisogno del loro tempo, per unirsi allo smarrimento del primo violino, e rispondergli.

Poi, pian piano, uno a uno, si radunano attorno al violino, così come sono, in vestaglia, pigiama e ciabatte, con l’entrata del violoncello che chiude il cerchio di questa docile processione.

Finisce così, banalmente. Con la luce del tramonto moscovita, che attraversa la scena di questa Spoon River tascabile, in cui i morti cominciano a parlare ancor prima di esserlo, in sei movimenti che hanno tutti lo stesso tempo delle cose che accadono senza che si possa far nulla per non farle accadere. “Adagio”.

Attimi prima che il sole scompaia dietro il tetto d’un caseggiato, uguale ai tanti di questa periferia, quest’uomo trova la forza di alzarsi dal letto, accompagnato dagli sguardi timorosi dei suoi compagni, e raggiunge la finestra. Un uomo col pigiama, la vestaglia e le ciabatte, e gli occhi affossati nello spessore della montatura degli occhiali. La Moscova, proprio sotto quegli occhi, disegna un’ansa. Stringe gli occhi, quest'uomo, e vede la vita brulicare, attorno alle rive di quell’ansa. Un crepitio lontano di ragazze che ridono e bambini che giocano. E lui che neanche sa perché, ma fischietta il motivetto d’una canzone popolare. Una canzone senza parole. Ma che, se le avesse, somiglierebbero a queste:

Lontano, il violoncello ha fischiato; il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un’arcata, un’altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano ... Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume tutte, e la città intera, e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Moscova, tutto, che non se ne parli più.

PS Ringrazio Louis Ferdinand Céline per qualche intervento qua e là.

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