Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

Se questo è un uomo – Primo Levi


Risapute e stanche, queste parole, vero?

Chissà quante volte le hai lette, lo so…

Io, la prima volta che le ho lette, è stato sul comodino di mio padre. Un territorio esotico e misterioso a cui, bambinetto, m’avvicinavo con la soggezione e la liturgia che si riservano a un luogo sacro, una città proibita il cui ingresso non era piantonato da sentinelle, ma da poche parole in croce, appena voltata la copertina d’un libro: “Meditate che questo è stato”.

Mio padre non era un gran lettore, e non ha avuto che quel libro, sul comodino, per tutta la mia infanzia.

Io, da parte mia, del libro, non ero riuscito a leggere che la prima pagina. Centinaia di volte. Avevo solo intuito che parlava di qualcosa di terribile, e a me precluso.

“Meditate che questo è stato: vi comando queste parole”. Il ritmo e l’autorevolezza d’un passo biblico. Bella anche l’inversione, mi rendo conto in questo preciso momento: tutti avremmo scritto: “Vi comando queste parole: meditate che questo è stato”.

Poi, a chiudere, la maledizione finale. Tre righe per tre abominazioni, una peggiore dell’altra.

“O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”.

E dire – scoprirò anni dopo, leggendolo, quel libro – che in 214 pagine Primo non ha una sola parola di condanna per i suoi torturatori. Tanto che sono tuttora convinto che l’uomo che Levi si chiede se ancora possa essere definito tale non è solo quello che “lavora nel fango” e che “lotta per mezzo pane”, ma anche l’aguzzino, che, ubriaco, con indosso una divisa e “un ridere rauco”, sferra colpi di badile sui lavoratori inermi.

Due facce della stessa medaglia della disumanizzazione che l’Europa s’è appuntata “con cimiteri di croci sul petto”.

Nessuna parola di condanna, dicevo. Eppure Primo ne trova di durissime per chi non scolpisce queste parole nel suo cuore, per chi non le ripete ai propri figli, coricandosi, alzandosi, stando in casa, andando per via…

Non le abbiamo ripetute a sufficienza, ai nostri figli, mi rendo conto… E ai figli dei nostri figli. E ai figli dei figli dei nostri figli. Altrimenti come spiegare a Primo che nel 2021 un consigliere comunale, capogruppo d'uno dei più votati partiti d'Italia, ex deputato, ha trovato del tutto normale pubblicare su Facebook un post contro una senatrice ebrea - “colpevole” di aver manifestato posizioni filovacciniste - scrivendo “Mancava lei… 75190“.

Non mi dite che questa recensione è lunga, ve ne prego... Ditemi, piuttosto, che è brutta. Come sorprendentemente, da curatori della casa editrice Einaudi, dissero Natalia Ginzburg e Cesare Pavese del manoscritto di Levi. Se la trovate lunga, semplicemente, non la leggete. Passate oltre. Avete la mia dispensa personale. Dedicatevi ad altro. Ad esempio, a capire perché un italiano su due crede che la Giornata della Memoria sia l’occasione buona per approfittare di imperdibili sconti su Hard Disk, CD-ROM e penne USB.

Ma a me, lasciatemi solo. Io ho semplicemente bisogno di mettere in pratica le parole di Primo.


Il 28 settembre del 1941, su Kiev - a soli tre mesi dall’inizio dell’Operazione Barbarossa e a pochi giorni dalla caduta della città – si abbatte un fortissimo nubifragio. Ed è su quei muri grondanti acqua, sui portoni, nelle strade, che compare un annuncio, stampato su una carta grigia di pessima qualità. È una convocazione, ma non ha titolo né firma. È scritto in ucraino, russo e tedesco: “È fatto obbligo a tutti i giudei della città di Kiev e dei suoi dintorni di presentarsi lunedì 29 settembre 1941 alle 8 del mattino all’angolo fra via Mel’nikovkaja e via Dochturovskaja (vicino al cimitero). Dotarsi di documenti, denaro, oggetti di valore, e anche di indumenti pesanti, biancheria, ecc.”.

La città era caduta in mani tedesche, dopo mesi di assedio, il 19 settembre dello stesso anno. Solo dieci giorni prima. Un tempo sufficiente agli Einsatzgruppen – forse il più efferato dei reparti speciali nazisti, comandato dal giovanissimo generale Reinhard Heydrich - per trovare il modo di pianificare l'annientamento degli abitanti di origine ebraica della città.

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent'anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent'anni
Figlio d'un temporale.

Nel poco tempo che seguì, i “fortunati” superstiti furono privati di tutto: diritti civili, patria, familiari, amici, cibo, proprietà immobiliari, dignità, e soprattutto vita. In un crescendo di violenze inimmaginabili di cui il fossato di Babij Jar non fu che il terribile prologo.

Nel 1939, a Kiev, vivevano 224.326 ebrei. Nel censimento fatto nel 1942, ne risultarono 20.

Ma la terra gli fu portata via
Compresa quella rimasta addosso
Fu scaraventato in un palazzo, in un fosso
Non ricordo bene
Poi una storia di catene, bastonate
E chirurgia sperimentale

L’ordinanza del 28 settembre del ’41, comunque, venne interpretata come una notizia in fin dei conti non troppo drammatica: una convocazione per un trasferimento in massa in una città di provincia. Si diceva di una mobilitazione di mano d’opera o dello scambio tra prigionieri di guerra tedeschi e famiglie ebree. Fino all’attacco tedesco, i giornali sovietici si sdilinquivano in elogi nei confronti di Hitler, definito “Il più grande amico dell’Unione Sovietica”, mentre nulla della terribile situazione degli ebrei in Germania e Polonia giungeva alle orecchie degli ebrei di Kiev: nessuno aveva mai solo sentito parlare di lager e forni crematori. I vecchi ebrei ricordavano i tedeschi del 1918, che, quando erano stati in Ucraina, li avevano trattati niente male, forse anche per via della lingua non troppo dissimile… Tutti si misero dunque speranzosamente in cammino verso via Menlik, l’anticamera dell’abisso della morte, alcuni s’incamminarono che faceva ancora buio, pensando di riuscire così a conquistare i posti migliori.

C’è una ragazza che attraversa la scena, ora.

Si chiama Dina Mironovna Proničeva ed è molto giovane, anche se ha già un marito, e due figli. E due genitori anziani, che hanno deciso di partire per la città di provincia che i tedeschi hanno scelto per loro. Lei no. Lei però vuole crescere lì i suoi figli: è ebrea, ma suo marito è ucraino. Avrebbe accompagnato i suoi genitori, li avrebbe fatti accomodare sul treno, ma poi sarebbe tornata indietro. Quello, era il suo paese.

E così, con padre e madre, si unisce al corteo che affolla via Turgenevskaja: gente carica di bagagli in spalla, altri con carretti, addirittura dei camion, su cui sedevano orde di bambini festanti, mentre i neonati erano trasportati anche a due o tre in una sola carrozzina.

Impiegano l’intera giornata, ad arrivare al luogo indicato… E lì non trovano treni, ma solo una indescrivibile confusione: i soldati nazisti, per scaldarsi, avevano acceso dei grandi fuochi, attorno ai quali giravano grossi pastori tedeschi. E bevevano, bevevano, bevevano.

Nessuno capiva quel che succedeva. L’unica cosa che capivano è che non v’era via di fuga.

Coi collaborazionisti ucraini, i tedeschi avevano creato un corridoio: due file di soldati, per uno spazio di circa un metro e mezzo, in cui i militari si trovano spalla contro spalla, armati di manganelli o grossi bastoni; anche Dina passa di là, sotto una gragnuola di colpi. Attorno a sé, corpi, sangue, risa dei soldati, urla, una povera distesa di insensati bagagli. E un poliziotto ucraino che le strappa i vestiti, lasciandola nuda e sanguinante, spingendola verso uno dei falò accesi là attorno. E sua madre che, trascinata via a forza da due soldati, le grida “Scappa, Dina! Mettiti in salvo… Tu non somigli a…”

“A un’ebrea”, avrebbe voluto dire. Ma non ebbe il tempo.

Mentre fra gli altri nudi
Io striscio verso un fuoco
Che illumina i fantasmi
Di questo osceno giuoco.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?

Difatti Dina non riesce a dire a sua madre che ha paura. Neanche lei ha il tempo, semplicemente. Come non ha il tempo di scappare.

“Schnell”, è la parola che piomba su di lei, assieme alla solita raffica di colpi di manganello, bastoni, tirapugni. Poi, lei e i suoi sventurati compagni, vengono portati a gruppi di dieci sull’orlo del precipizio. Dalla parte opposta del baratro, Dina può scorgere delle mitragliatrici leggere, già pronte, e sentire gli sghignazzi dei soldati. I bambini vengono strappati alle madri e buttati nella gola, come bambole di pezza, o lanciati in aria e usati come bersaglio per i colpi degli aguzzini, con la giustificazione che le tenere carni dei bambini non sarebbero state in grado di fermare una pallottola, col rischio di causare pericolosi rimbalzi sul terreno.

Quando partono gli spari, Dina, più che i colpi della mitragliatrice, sente i corpi delle persone a lei vicine cadere nel burrone. E sente la raffica avvicinarsi. Guarda giù, Dina, e prova un senso di vertigine, più che per l’altezza per le migliaia di corpi che già giacciono sul fondo di quel precipizio. Quando sente la sventagliata di colpi vicinissima, chiude gli occhi, Dina. E pensa “Ora è il momento!”. E si lancia nel vuoto…

Ho visto Dina volare
tra le corde dell'altalena
Un giorno la prenderò
Come fa il vento alla schiena
E se lo sa mio padre
Dovrò cambiar paese

Dina sarà l’unica testimone a uscire viva dall’inferno di Babij Jar. In poco più di ventiquattrore, i nazisti stermineranno 33.771 persone. Trentatremilasettecentosettantuno. Una persona ogni tre secondi.

Dina cadde sugli innumerevoli strati di corpi che i nazisti avevano disposto nel fondo della gola. Era questo, il metodo delle Einsatzgruppen, ampiamente collaudato in altre azioni simili a Ponary, in Lituania, Liepaja e Rumbula, in Lettonia, Bronna Gòra, in Bielorussia, o Gurka Polonka, nella stessa Ucraina: a uno strato di cadaveri veniva sovrapposto un altro strato, e poi un altro, e poi un altro ancora.

Si stima che, negli anni a venire, tra 100.000 e 150.000 persone abbiano trovato la morte a Babij Jar: ebrei, prigionieri di guerra, nazionalisti ucraini, Rom, Sinti, partigiani, omosessuali, ladri comuni. Addirittura calciatori della Dinamo Kiev, che non si erano voluti far battere dalla squadra delle Forze Armate tedesche.

La polvere, il sangue, le mosche, l'odore
Per strada e fra i campi la gente che muore
E tu, tu la chiami guerra e non sai che cos'è
E tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi il perchè.

Le prove di quella carneficina restarono sepolte sotto poche spanne di terra per un paio d’anni. Il 18 agosto del ’43, nell’imminenza della ritirata tedesca, il capo delle SS locali, Paul Blobel, fece prelevare 300 prigionieri dal campo di Syrec e li spedì nella gola a dissotterrare con vanghe ed escavatori i corpi delle vittime. Dal contiguo cimitero ebraico furono sradicate lapidi e ringhiere di ferro, che vennero usate come graticole per bruciare i resti. Continuarono a incenerire i centomila morti di Babij Jar fino al 28 settembre, riuscendo a realizzare pire su cui venivano accatastati e bruciati fino a 3mila cadaveri. In ultimo, con magli e pali, i prigionieri furono costretti a frantumare le ossa e disperderne la polvere lungo la forra.

Uomini cui pietà non convien sempre
Male accettando il destino comune,
Andate, nelle sere di novembre,
A spiar delle stelle al fioco lume,
La morte e il vento, in mezzo ai camposanti,
Muover le tombe e metterle vicine
Come fossero tessere giganti
Di un domino che non avrà mai fine.

Ed è questo il secondo tentativo di cancellazione di Babij Jar. Una volta finita la guerra, ne arriverà un terzo: quello messo in atto dalla censura sovietica, funzionale a nascondere il collaborazionismo ucraino e l’antisemitismo, che sempre aveva serpeggiato durante lo Stalinismo.

I trafficanti di saponette
Mettevano pancia verso est
Chi si convertiva nel novanta
Ne era dispensato nel novantuno

La scimmia del quarto Reich
Ballava la polka sopra il muro
E mentre si arrampicava
Le abbiamo visto tutti il culo.

Nel 1961, Evgenij A. Evtušenko, un poeta ventinovenne, di passaggio a Kiev per una serata di lettura, volle recarsi personalmente a Babij Jar: il sito era divenuto una discarica e nessun simbolo commemorativo era stato posto in quel luogo in cui erano morte migliaia di persone. Sconvolto anche dai recentissimi raid antisemiti che avevano incendiato il Paese - sotto la sigla BŽSP (acronimo di Bej židov, spasaj Rossiju, “Picchia gli ebrei, salva la Russia”, uno slogan eredità dei terribili pogrom di epoca zarista) – compose in poche ore il poema “Babij Jar”, di cui sorprendentemente riuscì a dare lettura nell’auditorium del Museo Politecnico di Mosca, sollevando una bufera politica.

Su Babij Jar, nessun monumento
Un ripido pendio: un'unica lapide non toccata da scalpello
Ho paura,
Sono vecchio, oggi,
Vecchio come il popolo ebraico
E adesso, credo, sono un ebreo.

A pubblicarlo – impresa ritenuta impossibile – pensò Valerij Kosolapov, caporedattore dell’autorevole Literaturnaja Gazeta. Veterano di guerra, ebbe modo di vedere coi suoi occhi la fossa di Babij Jar, e indifferente al grande pericolo che avrebbe corso, disse ad Evtušenko: “Io sono comunista, capisci? Come potrei non pubblicarlo?”.

Le conseguenze non tardarono a venire: il giorno successivo, il capo della Sezione Cultura del Comitato Centrale piombò in persona negli uffici del giornale per licenziarlo, idealmente spalleggiato dalla voce degli intellettuali organici sovietici, indignati dal fatto che il poema taceva delle sofferenze inflitte dai nazisti al resto della popolazione sovietica e che gettava proprio su di essa l’infamante accusa dell’antisemitismo.

Così, nell'unione sovietica, tutti lessero Babij Jar: eminenti scienziati e lavoratori, studenti e capi di partito, casalinghe e, certamente, agenti del KGB. Le reazioni furono estreme: alcune di ammirazione, altri lo detestarono. Quell'edizione della Literaturnaya Gazeta fu immediatamente esaurita. In quei giorni le macchine copiatrici erano proibite per uso privato, ma Babij Jar fu copiata segretamente in complessi militari e uffici governativi, con macchine da scrivere e a mano. Sulla mia macchina, qualcuno aveva inciso 'Giudeo' con una punta di ferro. La polizia di strada una volta mi fermò dicendomi di traslocare immediatamente, perché quei graffiti insultanti deturpavano la bellezza di Mosca.

Cinto d’assedio dall’artiglieria pesante dei censori, le mura del poema di Evtušenko erano sul punto di cedere. A capovolgere l’esito della battaglia è un telefono, che fa il suo mestiere e squilla, nel marzo del ’62, in un piccolo appartamento moscovita.

Mia moglie Galina andò a rispondere. Ritornò irritata: 'Continui a ricevere telefonate insensate, ha appena telefonato qualcuno che diceva di essere addirittura Shostakovich! Odio questi impostori.' Il telefono suonò nuovamente, Galina andò di nuovo a rispondere. La persona all'altro capo del telefono disse gentilmente: 'Mi scusi, non ci conosciamo, ma io sono veramente Shostakovich. Se vuole, può scrivere il mio numero e controllare. Potrebbe dirmi se Evgeni Alexandrovich è in casa?’ […] “Caro Evgeni Alexandrovič, ho letto la sua poesia Babij Jar e mi ha colpito profondamente. Vorrebbe essere così buono da darmi il gentile permesso di comporre un... non so neanche come chiamarlo, un pezzo?”.

Certo, neanche a dirlo! Ne sarei molto felice!”

“Oh, le sono così grato per il suo grazioso permesso… E non è che potrebbe venire a casa mia, diciamo, adesso? Questo... pezzo, questo pezzo... beh, a dire la verità sarebbe... pronto, ecco.”

Evtušenko, mancò a dirlo, si precipita a casa di Shostakovich: “Per me fu come Dio che chiamava dal cielo. Ricordo che ascoltavamo la sua Sinfonia Leningrado durante la guerra. A Zima, in Siberia, dove sono nato, non avevamo radio nelle scuole o a casa. Faceva piuttosto freddo, ma enormi folle di lavoratori, donne, e bambini ascoltavano all'aperto, da dei grossi diffusori neri. La Leningrado ispirò la gente in un periodo molto duro”.

Nasce così, la Tredicesima sinfonia di Shostakovic, estremo baluardo all’oblio, all’ipocrisia, al dolore, incontro tra un poeta semisconosciuto attaccato da ogni lato e il più grande compositore sovietico, che agli attacchi aveva fatto il callo da una vita: “La maggior parte delle mie sinfonie sono pietre tombali. Troppi nostri concittadini sono morti e sono stati sepolti in luoghi ignoti a tutti, compresi i parenti… Vorrei scrivere una sinfonia per ciascuna delle vittime, ma è impossibile ed è per questo che dedico a tutte loro la mia musica”.

Dopo diverse aggiunte e rimaneggiamenti, la Tredicesima sinfonia risulterà composta di cinque movimenti, uno per ciascuna delle coraggiose poesie che Evtušenko aveva composto per l’occasione: Adagio (“Babij Jar”), Allegretto (“Umorismo”) che deride chi ha l’illusione di tenere sotto controllo la satira popolare, Adagio (“L’emporio”) che glorifica la forza di sopportazione delle donne sovietiche, Largo (“Timori”) sull’angoscia di esprimere la propria opinione nell'epoca staliniana e, infine, Allegretto (“La carriera”) che profetizza celebrità immortale solo a chi è disposto a difendere le proprie idee.

Shostakovich affida le scarne parole del giovane poeta a un basso solista e a un coro di bassi, e alle lugubri campane che ci introducono alla fossa di Babij Jar, accompagnandoci sino alla fine del movimento, sulle parole “Non c’è un monumento a Babij Jar”; poi il basso solista, che ci racconta del destino ebraico, dalla fuga dall’Egitto, all’affare Dreyfus e ai pogrom di Bialystok, dopo un accorato appello al popolo russo: "O caro popol mio, o Russia, tu da sempre sei internazionalista. Ma quante volte chi ha le mani sporche il tuo puro nome ha brandito? Io conosco la bontà della mia terra e come, senza mai rabbrividire, gli antisemiti proclamassero: "Noi siamo la Nazione Russa!".

Su Babij Jar si sente il fruscio dell'erba.
Gli alberi sono minacciosi, come giudici.
Ogni cosa grida nel silenzio e, scoprendomi la testa,
Sento i miei capelli lentamente diventare bianchi.

E io divento un urlo continuo,
Sulle migliaia e migliaia di persone seppellite qua.
Io sono ognuno degli anziani fucilati qui.
Io sono ognuno dei bambini fucilati qui.

L’esecuzione pubblica della Prima fu ostacolata dalle pressioni del Comitato Centrale del partito sul basso solista e sul direttore d’orchestra designati, che finirono per rinunciare a parteciparvi e che, nell’imminenza della rappresentazione, furono sostituiti rispettivamente dal giovanissimo Vitaly Gromadskij e da Kirill Kondrašin.

Ebbe luogo una seconda esecuzione e poi fu vietato eseguire eseguire la Sinfonia con i versi originali: si scomodò nientemeno che Nikita Chruščëv in persona ed Evtušenko accettò di apportare al testo modifiche che ponevano gli ebrei sullo stesso piano delle altre vittime e che mettevano sotto una nuova luce il ruolo dell’Unione Sovietica nella sconfitta del nazismo. Spiegherà, anni dopo, che gli era parso l’unico modo per salvare la sinfonia, che comunque, per l’intera epoca sovietica, non apparve nelle edizioni musicali, col catalogo che passava direttamente dalla Dodicesima alla Quattordicesima.

È destino di Babij Jar, quello di vedersi vittima di ogni tentativo di cancellazione. Per avere una Menorah a Babij Jar fu necessario attendere il 1991 e la caduta dell’Unione Sovietica. “Questa valle è stata testimone di tre crimini terribili. Il primo è stato il massacro, la cancellazione degli esseri umani. Poi c'è stato l'occultamento (il tentativo dei tedeschi di riesumare i corpi e bruciarli al momento della ritirata) e la negazione, i tentativi di cancellare le prove e la memoria", ha affermato perentoriamente il presidente israeliano Isaac Herzog, nel suo discorso per l'ottantesimo anniversario a Babi Yar, solo tre mesi fa.

Oggi a Babij Jar c’è un anonimo parco, con i bambini che giocano a palla, genitori che allestiscono barbecue e bevono birre. E il miliardario russo Mikhail Fridman, principale finanziatore del Babij Jar Holocaust Memorial Center, che spiega: “La gente oggi deve scegliere fra mille forme di intrattenimento, dobbiamo tenere conto della mentalità del pubblico del futuro. La nostra competizione non sono gli altri musei: è Netflix”. Il direttore artistico Ilya Khrzhanovsky, da parte sua, aveva avanzato la proposta di un algoritmo che individuasse un ruolo da assegnare a ciascun visitatore sulla base del suo profilo social, in modo da permettergli di vivere in modo “immersivo” il massacro, da vittima o da carnefice, avvalendosi di tecnologie video deep-fake.

L'affermazione più profonda che sia mai stata pronunciata a proposito della Shoah non fu affatto un'affermazione, bensì una risposta. La domanda era: "Ditemi, dov'era Dio, ad Auschwitz?". E la risposta fu: "E l'uomo, dov'era?" - William Clark Styron

Io, da parte mia, credimi, ho fatto quello che potevo, Primo.

Carico i commenti...  con calma