L'allestimento (diciamo) del palco era probabilmente la cosa più vicina all'Unione Sovietica mai vista ad ovest del Checkpoint Charlie. Qualsiasi velleità estetica sacrificata a un gigantismo freddo tutto linee e geometrie. Due rampe di scale laterali e all'occorrenza tre/quattro coriste (anch'esse dall'aspetto molto sovietico) ubicate in lontananza su un lato a scelta. Che avevano facoltà di muoversi, ma non necessariamente. In scena non più di uno strumento, non sia mai si rischiasse di colmare troppo l'opprimente senso di vuoto.

Logo ufficiale che poteva essere benissimo quello di un Congresso CGIL di metà anni '80.

In concorso, la poesia delle astronavi di Tozeur perduta fra capolavori di perfetta vacuità lirica - su tutti, la memorabile 100% d'amour della stellina di casa Sophie Carle, che di professione non era cantante. In totale coerenza con lo spirito del Festival, e lo erano pure i tre svedesi che vinsero con la filastrocca elettronica Diggi-Loo Diggi-Ley (che, come forse si può intuire dal titolo, non affrontava tematiche molto complesse).

Tanto vincono sempre quei Paesi là, anzi quelli SU. Quelli del Nord

Tipo la Norvegia, la cui performance fu anticipata da una clip di presentazione (allora si usava così) che avrebbe dovuto far pensare alla Norvegia: un mare in tempesta e una nave che fluttua tra le onde. Musica della clip molto rassicurante, a metà fra un Pat Metheny anni '80 e un sottofondo di Superquark. Eppure trapelava un che d'inquietante: quella nave in mezzo alle onde non la vedo bene.

Dirige l'orchestra il maestro Sigurd Jansen, uno che fra Patria ed estero ha diretto una quantità di Symphony Orchestras da far paura. Ha già rappresentato la Norvegia cinque volte, è un veterano.

Sarà il suo ultimo Festival, e non per morte prematura.

Ma dicevamo, la canzone.

La canzone si chiama Lenge leve livet, è un inno trionfale alla vita con vaghi accenni di carpe diem (“non sappiamo dove mai finiremo” - quindi: finché siamo vivi, spassiamocela) e un'esortazione alla fratellanza universale (“lunga vita alla convinzione che i nemici possano diventare amici”: davvero bellissima questa, sì). Uno schlager, altrettanto in linea con lo spirito del Festival. Tutto molto rassicurante, appunto.

Se non fosse che... entrano.

Sono in due. Una ex-punk (sembra), ovvero Ingrid Bjornov, e un soprano, ovvero Benedicte Adrian.

Come nome, Dollie De Luxe è già alquanto disarmante di suo, ma il look lo è di più. Adesso su blog vari leggerete che era un proto-goth-lolitesco giapponese, stile Strawberry Switchblade, ma è una cavolata bell'e buona. Trattavasi in verità di una futuristica sintesi di elementi di folklore nordico, con rimandi finanche a quella Norvegia precristiana tanto cara a Varg Vikernes.

Da Munch al black metal, infatti, la Norvegia ha sempre avuto una sua tendenza a scioccare.

Qualcosa di demoniaco c'è, in quella performance. Ad esempio, la Adrian che fa roteare gli occhi. Non per possessione satanica, dissero i giornali, ma per l'effetto non smaltito dell'alcool nel pre-gara. Gli acuti lasciano perplessa la fiacca platea lussemburghese, la coreografia (con tanto di tastierina che la Bjornov fa finta di suonare) non risolleva la questione. Per la classifica è un 17esimo posto, per la Norvegia (che al festival tiene più che ai mondiali di calcio, per ovvi motivi) un fiasco nazionale.

Sommerso dalle critiche al ritorno in patria, il duo delle meraviglie realizza forse che proseguire sulla strada delle canzoncine e della fratellanza universale non sarebbe una grande idea, e ha l'ambizioso intuito di cimentarsi con una cosa simile a quella sperimentata – a loro tempo – da Nice, Emerson Lake & Palmer, Deep Purple, Procol Harum, New Trolls, Osanna, Red Canzian, persino i Love Sculpture di Dave Edmunds (e di Khachaturian).

Con un soprano in più, però. EH.

Avete già capito di cosa si tratta, quindi non lo dico. Anche perché ve lo dice già il titolo.

Laddove il “versus” dovrebbe forse suggerire non una fusione armonica fra rock e classica, ma un matrimonio tormentato e conflittuale. Con forte attrito (e contestuali scintille da cui proteggere occhi e forse anche orecchie).

Verosimilmente stregate dall'Amadeus di Forman e dalla rilettura in chiave-rockstar genio-sregolatezza del Genio salisburghese, le due ex-eroine runiche (ora a metà fra Arcadia e Rococò) virano con violenza sulla strada della contaminazione. E il risultato...

...il risultato sono: una Regina della Notte che si muove sul motown di Satisfaction, una vedova allegra scatenata sulle chitarre tamarre di Whatever You Want, una Gilda che intona Caro Nome sul riff di Sex Drugs & Rock'nRoll (quella di Ian Dury), una Carmen poco habanera e molto hippie fra nacchere e Gimme Some Lovin' (“mais si je t'aime... so glad we made it, so glad we made it...”)

Capito?

Quindi, sì: i tirannosauri del prog sinfonico potranno anche aver osato l'impensabile, ma nulla che si possa paragonare alla lontana con Rock vs. Opera. Che è qualcosa di molto più impensabile, al punto che non l'aveva mai pensato nessuno.

E poi siamo negli anni '80. Ci sono le tastiere, i sintetizzatori, le chitarre metal. La batteria elettronica.

Che la fa da padrona sul lato B - perché va bene una sola canzone a testa per Stones, Status Quo e Spencer Davis Group, ma il tributo ai più grandi di sempre non può limitarsi a un solo pezzo. Ai più grandi di sempre si dedica una suite in otto movimenti lunga un lato intero, e si scomoda (ancora) il Flauto Magico, mixed with – nell'ordine, più o meno:

A Hard Day's Night

Taxman

Paperback Writer

Day Tripper

You Won't See Me

I Am The Walrus

Because

Helter Skelter

Get Back

Mean Mr. Mustard

A Day In The Life

Lucy In The Sky With Diamonds

For No One

Eleanor Rigby

She's Leaving Home

Lady Madonna

All You Need Is Love

(anche più di una alla volta, all'occorrenza). Ma non si può spiegare, senza ascolto.

L'opera lascia “un poco” esterrefatti, Satisfaction (come singolo) conquista un 20esimo posto in Francia, il disco vende benino. Anche bene, considerato il contenuto.

Ma non basta.

Le due non si accontentano, e neanche un anno dopo ci riprovano. Non con le canzonette, non con nuovi ibridi di rock e classica, bensì con un musical scritto a quattro mani (sia pure con l'ausilio di un librettista per i dialoghi) e ispirato alla stregoneria e al Malleus Maleficarum.

Witch Witch (Strega Strega, appunto) debutta a in patria, a Bergen, nel maggio dell'87. Il VHS di quell'evento epocale è reperibile su Youtube. Non paghe, le due riescono persino a esportarlo all'estero, per un totale di 76 serate al Piccadilly Theatre di Londra.

Le uniche recensioni superstiti lo descrivono, nell'ordine, come: “un bizzarro musical”, “una terrificante opera-rock”, “il secondo peggior musical londinese di tutti i tempi”.

(Non mi sono mai chiesto da chi fosse occupato il primo posto).

Comunque, ed è quello che più mi premeva dire: Ingrid Bjornov scompare quasi del tutto, Benedicte Adrian invece ricompare. Alla tv norvegese. Soprattutto in programmi di cucina.

Ciò non toglie che io sia legatissimo al mio vinile di Rock Opera, comprato di seconda mano diversi anni dopo. Alla cifra di 1 euro e 50.

E forse non lo cambierei con l'intera discografia dei Beatles...? (E' un po' un'esagerazione, ma giusto per rendere l'idea).

Nonostante i Beatles siano i più grandi di sempre.

Dopo Amadeus.

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