Siccome constato certamente che gli estimatori del Doom Metal, almeno in questo contesto, siano pochi, pochissimi, tanto pochi da poterli contare "sulle dita di una mano monca", io mi trincero nel carattere ancora più sotterraneo e pestifero del genere, ossia il "Funeral" e ne rimango sempre "contento" ed affascinato.
Non lo faccio per ripicca a nessuno, ci mancherebbe (anche se scommetto che il povero sfascia già si stia toccando gli attributi e che, invece, qualcun altro abbia deciso di farmi ingoiare un certo qual freesbee arancione), ma solamente perché ritengo che questa "ramificazione" sia per certi versi a me molto congeniale. Congeniale perché, manco a dirlo, estremamente basata su concetti immutabili e cinerei, niente a che vedere dunque con la faciloneria di certi coretti da operetta ripetuti sino alla nausea almeno tremila volte in nemmeno tre minuti.
Certo, a volte ci vogliono pure quelli per darsi una bella scossa, ma a volte, la musica, e parlo nello specifico proprio del Funeral Doom, deve essere per forza intimistica e apocalittica, per far pensare, per far riflettere, forse pure addirittura per far riuscire ad esorcizzare paure e angosce latenti o pseudo tali che siano.
Allora, in questi momenti, non si può fare affidamento che su qualcosa che abbia la stessa durezza granitica e la stessa pesantezza insopportabile di un monolite di cemento armato, lo stesso spessore infinito di certe rimembranze tanto care eppure tanto dolorose, gli stessi lembi semitrasparenti, evanescenti e non-finiti delle cose che appaiono per un attimo nel cervello e poi scompaiono in men che non si dica.
I ricordi, gli Amori perduti, quelli che si credevano infiniti eppure decapitati in un paio di mesi, la perdita di una persona cara a cui eravamo estremamente legati, la frustrazione dell'impotenza, la disperazione del non-essere e del non-rappresentare che il "Niente", inteso nella sua forma più parossistica e grottesca, il decadimento morale e fisico, l'indolenza del carattere, dell'anima e dei reconditi recessi dei processi mentali.
Tutto questo, e molto altro, io riesco a carpirlo solo in melodie lentissime, catacombali, sotterranee e annichilenti, tutte o quasi, racchiuse in canzoni che durano la media di dieci minuti e che, quando finiscono, lasciano tracce di presagi d'ansia e di paure appena accennate.
A differenza di quanto si creda, suonare al rallentatore non è per nulla semplice, specie se, come in questo disco, si ha l'ambizione poi di ricamarci attorno fraseggi struggenti e per certi versi addirittura minimali, correndo il rischio, sempre strisciante, di scadere nella noia e dunque, di conseguenza, nel dimenticatoio e nelle coltri di polvere degli scaffali.
Ebbene, per i Doom:VS questo rischio è inesistente.
Progetto musicale partorito in questo 2006 dall'istrionico Johan Ericson (e chi conosce i Draconian sa benissimo a chi mi riferisco), che qui si dedica, oltre che alla chitarra sua passione, anche a quasi tutti gli altri strumenti e alla produzione, senza tralasciare, come è naturale, i "grunts" dati in misura industriale e mai risparmiati nei solchi di "Aeternum Vale".
Ericson è fautore di un'opera che si pone su livelli certamente alti e molto d'impatto, non rinunciando alla creazione di atmosfere gotiche, e questo pure grazie alle numerose parti di tastiera a corollario di un "mood" davvero ancestrale, mortifico e ben strutturato. Certo, non siamo ai livelli olimpionici di altre patrie glorie del Doom, ma se non li si raggiungono è solamente per il fatto che il disco, pur rappresentando una bella botta di tutte quante le più brutte cose possano capitare ad un uomo, investe di più sui ritmi e sulla sincronicità delle parti che non sull'introspettivo senso di malore intestino che anima (o animava) band ben più blasonate di questa, come Shape of Despair, Skepticism, Morgion e altri ancora.
E così, accanto alle claustrofobiche stanze chiuse e mai investite dalla luce che sempre sono ben presenti in ogni angolo, s'affiancano piangenti e ridondanti accordi di chitarra che sembrano arrampicarsi per chissà dove, o che vogliano sprofondare in chissà quale voragine, piccoli interludi di pianoforte e riflessi elettronici posti nelle parti più caustiche e criptiche del cd. In certi momenti sembra persino di trovarsi a dover riconoscere i primissimi Anathema, come in "The Crawling Inserts", o i Candlemass nella loro migliore forma.
Anche se comunque questo è un prodotto squisitamente "Funeral" e che si può benissimo collocare al centro di questo genere, dunque non mancano necessarie e variegate attitudini che nulla sviliscono e niente mettono in ombra in quanto ad impatto emotivo e sonoro. Basta ascoltare, a caso, la bellissima "Empire of the Fallen" incastonata in una cornice gotica che farebbe invidia ai My Dying Bride, e che, non a caso, è uno dei brani meglio riusciti dell'opera, o il growl spaventoso, da far accapponare la pelle, introdotto dalle note cadenzate e "larghe" note di un pianoforte su "Oblivion Upon Us".
Tanto di meglio se poi tutte le canzoni (mastodontiche, occorre sempre ricordarlo), hanno un piglio particolare ed eclettico che, non può che ammaliare, sempre che ci si fermi a pensarle e non solo ad ascoltarle, e sempre che, come al solito riguardando questo genere, non vi colga il "magone" e la voglia irresistibile di uscire all'aperto per prendere una boccata d'aria fresca.
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