Considerato sul piano concettuale come il secondo film di una trilogia cominciata con “Moon” (2009), “Mute” è un film di fantascienza diretto da Duncan Jones e ambientato nella città di Berlino nell'anno 2052. La storia del film (in breve) è quella di Leo (Alexander Skarsgard) un tipo solitario che lavora come bartender in in night club. Leo è muto e di fede Amish e ama una ragazza misteriosa con i capelli blu elettrico che si chiama Naadirah (Seyneb Saleh). Un giorno lei sparisce nel nulla e per Leo comincerà una ricerca in queste colorate e plasticose ambientazioni della capitale berlinese dove avrà a che fare con personaggi tipici come puttane androgine oppure chirurgi plastici privi di ogni connotazione sul piano etico e morale.
“Mute” è un'opera citazionista (forse troppo): i riferimenti vanno ricercati principalmente in due film classici del cinema tedesco come "Metropolis" e "M" di Fritz Lang e in quella già richiamata "estetica" che poi avrebbe in effetti catturato l’attenzione di giovani provenienti da tutte le parti del mondo e che oggi affollano quella che è senza dubbio la capitale d’Europa. Sebbene la struttura della città sia stata accostata a quella di "Blade Runner", invece che la decadenza delle ambientazioni Ridley Scott, la raffigurazione della capitale tedesca rappresentativa di melting-pot e alta densità di popolazione è più una specie di messa in scena allegorica futurista. Berlino sembra finta, ma posso anche dire che ci ho vissuto e di avere alla lunga fatto le stesse considerazioni con diciamo cinquant’anni di anticipo, quindi forse questo tipo di rappresentazione per quanto spinta alle sue massime espressioni, è inevitabile.
Chiaramente le scelte non sono casuali. I riferimento a Fritz Lang e la stessa estetica rappresentata sono infatti tipicamente David Bowie (cui Duncan Jones ha voluto dedicare il flim) e lo stesso Clint Mansell (che ha curato la colonna sonora) menziona il Bowie berlinese con i Popol Vuh e i primi dischi degli Ultravox! come principali fonti di ispirazione. Ma quello che più mi ha colpito sono tutta una serie di coincidenze non so quanto volute con un certo cinema di Salvatores e in particolare con “Nirvana” (1997) - a partire dai riferimenti a “Blade Runner” e l’uso di determinate immagini fino ai capelli colore blu elettrico di Stefania Rocca - e poi la stessa devozione nei confronti di “M” già richiamata dal regista italiano in "Qua vadis, baby?" nel 2005. Riferimenti forse scontati se si affrontano determinati temi ma che in questo confronto ideale una volta tanto vedono prevalere il cinema italiano e in particolare il lavoro di Salvatores su un film che sebbene non annoi lo spettatore, e anzi lo incuriosisce e lo spinge a andare fino in fondo nella visione (sul piano recitativo menzionerei la prova di qualità di Paul Rudd e la grande bravura di un nome meno noto come quello di Noel Clarke), non appare destinato a ripetere lo stesso successo di "Moon" e diventare un oggetto di culto.
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