Già da più di mezzo secolo il doganiere Rousseau non creava mondi di zucchero filato.

Con gli stessi occhi di bambino, il tepore rosato d’un meriggio e il rovo arricciato d’un roseto assecondano una famiglia d’antan dallo sguardo sereno. Una vita colorata a tinte tiepide, ritratta da Maja Weber.

Con “More Colours” i contorni sfumano.

Ha una tacita compattezza, una trama e un ordito tenui e grevi, questo primo disco di Eberhard Weber. Pur nella diversità di direzioni, nella variegata cromia delle quattro tracce.

Cos’ha di jazzistico la sua musica? Non certo il sudore sulla fronte, ma un certo qual piglio di tempesta, di tormenta interiore.

Non ha la cristallina cesellatura di altri suoi lavori, la trepida Chloë, ma l’atmosfera —il chamber-jazz, assonnato o vispo, di un crocevia nubeggiato— che sa inondare di rosa antica e di turchese ogni angolo, quello sì, è un suo marchio di fabbrica.

Soltanto nelle sue mani un violoncello può galleggiare, tra nembi scarlatti e vespri ammantati di lavanda.

Soltanto snodando gli ormeggi, può tingersi d’ogni colore.

Non ultimo, quello d’un opalino bordone, che è tutto fuorché una monotonia.

E d’un candor di silenzio, che è tutto fuorché una mancanza.

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