E' strano passare da De Andrè agli Erode, vero? Più che una domanda questo è un pensiero: alla fine chi sono gli Erode? Sono, o meglio erano, un gruppo di ragazzi molto arrabbiati. Lombardi rossi oltre l'immaginabile: comunisti delle strade, Figliocci di Lenin. La fede che questo gruppo ha riversato nelle proprie canzoni è il motivo per cui ho deciso di parlarne: nell'epoca dell'onestà, delle unioni civili e della smania per il padronato autoctono, avevo proprio voglia di parlare di un rutto. Il fragrante messaggio racchiuso in una calda e rumorosa bolla d'aria: ecco il grande vaffa degli Erode, i Peppone dell'Oi! italiano: il richiamo alla bandiera rossa sul Reichstag, l'odio verso i carri armati della NATO, senza saperlo questi sbandati parlano della nostra storia. Ignoranti innestatori di versi, eppure viscerali commentatori di una realtà che conoscono bene, quella degli esclusi e sopratutto degli sfruttati.

Il punk rock degli Erode è senza mezzi termini, ha il sapore della guerra totale: i nemici sono dall'altra parte del ponte e per sconfiggerli non verrà fatto alcun prigioniero. Tutti gli ascoltatori, tutti coloro che sono pronti a saltare sotto il palco, sono avvertiti: quelli di Al volga non si arriva sono tredici minuti di rabbia (rossa) senza confini. Europa inaugura il disco con il proprio riff spettrale, accostabile alle atmosfere della Nuclear Winter dei lontanissimi Sodom; cori da stadio, invettive didascaliche, eppure un semplice sentimento capace di colpire il cuore, portando a riflessioni ben più profonde di quelle sputate dagli Erode nel proprio pezzo. Siamo davanti a fiumi di alcool e ad ormoni fuori controllo, eppure utilizzando questi mezzi primitivi i Figliocci di Lenin portano il punk alle proprie origini, all'essenza di ciò per cui è nato. Con lo stesso si spirito si approda a Stalingrado:

Abbiamo resistito per questo lungo inverno
La fame, la neve, è stato il loro inferno
Compagno Timoshenko ricorda chi è caduto
Per la bandiera rossa, per il proletariato ​

L'insistenza sul termine proletariato colma il vuoto lasciato da una società dove i proletari non esistono, eppure sono la maggioranza della popolazione. Anche per questo Stalingrado è un'estasi: non quella sottile cantata dagli Stormy Six vent'anni prima, siamo sempre davanti a una catarsi, ma non è dettata dai violini, è lanciata da chitarre che lasciano a terra rivoli di sangue. La chiusura dell'album è affidata a Frana, senza dubbio il rutto più spassionato degli Erode. Il S'i fosse foco abbozzato da un Angiolieri che cerca lo scontro con gli imperatori dell'occasione: una nuova catarsi bucolica, così furente da rendere godibile anche una burla che dev'essere intonata allo stadio. Così si chiude la sferzata dei ragazzi lombardi; proprio questa rabbia, questo rosso colore sprigionato da un cuore pugnalato, è ciò che vorrei di nuovo sentire animare intere generazioni perse nel buio - il buio di libri rifiniti, di vestiti stirati, quello di canzoni ripulite da un vocoder. Ode agli Erode e al germe putrido del proletariato.

Se dev'esserci violenza, che violenza sia, ma che sia contro la polizia
Frana la curva, frana sulla polizia italiana
Frana la curva, frana su quei figli di puttana

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