Ho sempre avuto il sospetto che l'etichetta "Teatro dell'Assurdo" non sia altro che un'invenzione tipicamente borghese coniata per proteggersi da coloro che favellano di verità.
Una specie di riflesso incondizionato, di strategia difensiva che consente un distanziamento da tutte quelle opere che mettono a nudo ciò che normalmente è agghindato da abiti, se non di gala, almeno di decorosa ordinarietà: il vuoto.
Insomma, ci sono individui che incarnano quasi in toto il simbolismo delle tre famose scimmiette solo che - disgraziatamente - una delle tre parla e, quando lo fa, dice stronzate.
Eugène Ionesco è stato un maestro - oltreché uno dei pionieri - di quello che taluni, con brutale schematismo, hanno banalizzato come "Teatro dell'Assurdo".
Leggendo "Il Rinoceronte", una delle sue pièce più importanti, scopriamo che dietro alla funambolica allegoria di quell'epidemia di "rinocerontite" che stava pian piano trasformando tutti gli esseri umani in stolidi mammiferi dalla vista corta, si celava un messaggio squisitamente politico espresso con un simbolismo furioso e dissacrante.
Se ne "La Peste" di Camus il totalitarismo era equiparato ad un morbo che ineluttabilmente si diffondeva in tutto il popolo e la "qualità" dei cittadini era stabilita da come ognuno reagiva alla catastrofe, Ionesco variava sul grottesco lo stesso tema mostrando gli effetti che infestavano coloro i quali - incapaci di una qualsivoglia profilassi - assecondavano supinamente i germi infausti portati dalla Storia.
E il linguaggio, la simbologia, gli accadimenti della pièce erano pervasi da una comicità talmente furibonda ed iconoclasta da sembrare quasi una trasposizione teatrale della poesia di un Tristan Corbière, straordinario - quanto immeritatamente obliato - autore degli "Amori Gialli" che per primo mise in burla i dogmi postulati da Baudelaire.
Ma sto divagando. Sì, perché il focus lo vorrei piuttosto portare su "La Cantatrice Calva". Esordio di Ionesco alla drammaturgia e composto nel 1950, questo lavoro si configura come il manifesto - formale e sostanziale - di tutto il suo teatro a venire ed è, a conti fatti, una gigantesca presa in giro della categoria sociale più disprezzata dal Nostro: la media borghesia.
Una normale serata borghese ambientata in un salotto tipicamente borghese, due coppie borghesi di mezza età vestite in abiti che sono la quint'essenza borghese, sazietà borghese condita da un loop borghese senza fine.
Ed è tutto.
"La Cantatrice Calva" parla del vuoto.
Proprio questa è la geniale trovata di Ionesco che, non a caso, ha definito quest'opera "anti-commedia" in opposizione ad una "normale" pièce comica dove la narrazione segue il filo di un inizio-sviluppo-fine condito da arguti motti di spirito che a turno i vari personaggi disseminano nel percorso per imbonire lo spettatore.
Qui si ride, eccome se si ride, ma seguendo un procedimento linguistico attraverso il quale Ionesco porta al parossismo tutto quell'arsenale di frasi fatte, di idiosincrasie, di deliri senza senso, di tic nervosi, di incongruenze, di bieche approssimazioni che sostanziano l'esistenza del borghese medio.
È come se l'idiozia gargantuesca di Padre Ubu fosse qui spalmata su ogni personaggio il quale, pur non avendo niente da dire, parla in continuazione per colmare la nullità della sua esistenza. Ma, se il "burattino" di Alfred Jarry era inserito in contesti decisamente favolistici o pseudo-storici, ne "La Cantatrice Calva" colpisce al primo colpo d'occhio il contrasto tra un interno più che mai anonimo ed una conversazione spinta ad una furiosa dissennatezza schizofrenica.
Ionesco si abbandona ad una specie di cupio dissolvi fissando l'abisso senza fondo della vacuità umana e svuota la conversazione della sua giustificazione ultima: la comunicazione.
Un procedimento simile lo attuerà qualche anno più tardi anche Beckett in "Aspettando Godot", ma con qualche decisiva differenza: mentre Vladimiro ed Estragone sono due "illuminati" i quali - nonostante la vana ed eterna attesa - comprendono perfettamente quanto il loro conversare sia del tutto inconcludente, i personaggi di Ionesco non fanno altro che parlarsi addosso, si infuriano gli uni con gli altri per poi riappacificarsi subitamente e balbettano sentenze tagliate con l'accetta sperando di convicere gli altri della giustezza delle loro affermazioni.
Insomma, sono persone ancora persuase non solo di poter ammaliare gli altri con il loro eloquio ma anche di poter comunicare con la trasmissione orale ciò che hanno (o non hanno) nel cuore. In realtà i loro strali e le loro tirate non servono ad altro che a surriscaldare l'ambiente in cui vivono e a contagiare con i loro folli sproloqui persino gli oggetti di casa dove anche la pendola, forse obnubilata da cotanta balordaggine, continua sì a far risuonare i suoi rintocchi, ma lo fa completamente fuori giri.
La conclusione in crescendo della pièce, quel succedersi di fulminei botta e risposta slegati fra loro, quel baccanale cacofonico con tutti i personaggi degradati allo status di meri riproduttori di suoni non fa che mettere un suggello pirotecnico ad una delle opere più anti-borghesi del '900.
Tutto ciò è stato chiamato "assurdo", ma - pur sapendo che tale qualificazione la si deve ricollegare al concetto di gratuità, di "assurdità dell'esistenza" tanto caro all'Esistenzialismo - direi che l'epiteto non centra completamente il bersaglio. Per quanto mi riguarda - se non avessi in uggia ogni tipo di etichetta - parlerei di un "Teatro dello Smascheramento" che, attraverso iperboli parodistiche, svela progressivamente l'essenza più autentica di certi fenomeni e modus vivendi. E tutto questo gente come Charlie Chaplin, per esempio, lo sapeva benissimo.
Ah, forse vi state chiedendo il perché di quel titolo. Perché "La Cantatrice Calva"?
È semplicemente una falsa pista, uno dei tanti deliri tratto da uno scambio di battute della pièce:
"E come sta la cantatrice calva?".
"Si pettina sempre allo stesso modo!".
In effetti quel burlone di Ionesco aveva il buon gusto di non risparmiare nessuno nei suoi lavori, nemmeno se stesso.
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