Demetrio: «Senti Eugenio non siamo qui per sciacquarci i coglioni, ma per fare dell'ottima musica. Vuoi continuare ad incidere album per bambini?[1] o diventare come quell’altro? Qui si fa la muffa, io me ne vado. Ho già parlato con Sassi».


Non so a cosa stesse pensando Eugenio in mezzo alla folla quando Demetrio gli si avvicinò. Smarrito tra schermi Persol, jeans a zampe d’elefante, gilet, camicie pezzate di sudore ed ancora gilet, seduto sopra un baule con sguardo assorto di fronte a mixer e cuffie, in un qualche festival giovanile del Re Nudo.

Aveva solo vent’anni e quanto gli piaceva veder gli altri suonare.

Eugenio era nato a Milano, da padre bergamasco e madre statunitense, quest’ultimo dato da non sottovalutare visto che lo porterà spesso a viaggiare negli States e lo farà diventare culturalmente un meticcio. In una manciata d’anni aveva già deciso il da farsi, stanziare in via definitiva nel capoluogo meneghino. Dall’America importerà solo due cose: Blues e The Rolling Stones. Ogni notte lui e il suo migliore amico Camerini vanno peregrinando e colonizzando tutti i night di Milano, stuolo di band e musicisti imberbi speranzosi di farsi notare, ed Eugenio con la sua corporatura possente, i capelli biondi lunghi e l’immancabile chitarra rossa Eko, ci riuscì. In quei pullulanti e rigogliosi locali incontrerà Marino Marini, uno dei massimi scopritori di talenti italiani dell’epoca.

Marini: «Sei il primo capellone che con quella cavolo di chitarra elettrica non mi rompe i coglioni, sei assunto».

Ed ecco che firma il suo primo contratto discografico per la Numero 1 del duo Battisti-Mogol vicino Via dei Chiostri, laddove erano situati tanti piccoli appartamenti tutti uguali tra di loro e la sequenza era prestabilita: pianoforte, paroliere e compositore. Un’enorme catena di montaggio per intenderci. Li dentro Eugenio doveva vestirsi di bianco e cantare musica soul. Perché? “Perché aveva la voce da nero”. Quegli ambienti asettici non andavano bene, e dopo un solo 45 giri in lingua inglese [2], seguirà le orme di Demetrio, da sempre suo mentore e maestro, ed entrambi lasceranno la Numero 1 per approdare alla Cramps Records di Gianni Sassi.

Nella Milano rinascimentale degli anni Settanta, Gianni Sassi era il Mecenate per eccellenza: lungimirante, avanguardistico, innovatore, comunicatore, visionario, carismatico, colto, produttore, pubblicitario, paroliere, direttore artistico, imprenditore, fotografo. Un uomo capace di riunire in uno stesso tavolo Demetrio Stratos, John Cage e operai dell’Alfa Romeo. Dal suo piccolo studiolo da grafico pubblicitario eccolo adoperarsi per riempire intere gallerie. Mirabilia d’ogni genere legati al nuovo che avanzava (Skiantos, Area, Camerini, Battiato, Finardi). Dietro vi era una scelta ideologica ben radicalizzata, di sinistra e contro-sistema, un suono radiale e libero, lasciando massima libertà agli interpreti del movimento. In ogni produzione vi erano -sempre da parte di Sassi- decisioni meticolose, perfino decretare sul font della copertina d’ogni album, l’unica pecca riguardava il pagamento di cifre irrisorie a musicisti e cantanti, i compensi servivano a finanziare i lavori futuri e, chi più chi meno, faceva la fame, tutti senza una lira. In quei fecondi simposi nascono le prime collaborazioni e tutti i membri della Cramps comunicano tra di loro. Nel primo album di Finardi, ovvero “Non gettare alcun oggetto fuori dai finestrini" [3] si uniscono Franc Jonia [4] e Claudio Rocchi. Ne esce fuori un lavoro sghembo e acerbo. Sassi però vede delle potenzialità e mette a sua disposizione tre quarti della formazione degli Area (allora tra i migliori musicisti jazz-rock di tutta la penisola) per il suo secondo album “Sugo”.

La squadra era al completo.

C’era il sapore acre e pallido greco di Demetrio, l’umidità asfissiante brasiliana di Camerini, l’irruenza benevola italoamericana di Eugenio, i serrati Calloni e Fariselli, il basso burrascoso trinidadiano di Bullen, il contrabbasso tellurico di Tavolazzi ed infine gli allucinogeni Bardi e Fabbri con mandolino e violino. Dentro gli studi di registrazione però l’identità d’ognuno veniva meno, tutto si mescolava dando vita ad un’assoluta coerenza stilistica: apolidi dal carattere ribollente dispersi in suoni e note, diteggi e vibrazioni unici territori sfiorati, abitanti di un’idea, quella di cambiare il mondo con la musica. Ed erano tanto determinati, se solo avessero avuto le idee più chiare[5]

Avevano solo vent’anni e quanto gli piaceva sognare.

Prima erano soliti incontrarsi a casa di Eugenio, preparavano e discutevano i brani in una stanza insonorizzata. Tutto veniva naturale e la musica usciva spontanea e fluida, la prima traccia dell’album, “Musica Ribelle”, pronta al 1-2 take durante il primo giorno di registrazioni. Stilisticamente e musicalmente vi erano delle scelte ben precise, quali attingere al rock americano traducendolo e quindi trasformandolo, un rock togato con ambientazione e strumenti italiani. Prendendo così l’atteggiamento, l’ideale del rock e vestirlo con l’entrata in scena del violino (al posto della classica chitarra elettrica) e l’inciso con il mandolino distorto che passa attraverso un Marshall 200 watt.

Tra un giorno di registrazione e l’altro Eugenio era solito condurre diversi programmi radiofonici, uno tra tutti era “Su da Dio” a Radio Milano Centrale, una delle prime radio libere italiane del periodo. Parlava di musica e l’analizzava, si passava dal jazz, al funky, con intermezzi di bossa nova e musica etnica. L’unico problema era la sigla, un pezzo folkloristico sardo di difficile comprensione [6]. Decise quindi di scriverla lui una canzone, dallo scontato titolo “La Radio”, un country western in lingua italiana, universale per tutte le fiorenti radio libere nascenti. In pochi mesi diventerà lo slogan di centinaia di emittenti radiofoniche.

«Adoro fare radio. È forse il mezzo di comunicazione di massa che preferisco, è intimo e sensuale, e permette un contatto emozionale diretto, senza filtri. […] A volte, mentre il disco suona lascio il microfono acceso in modo che si percepisce subliminalmente il mio respiro. E poi ci sono le telefonate che permetto di dare una voce a tutti coloro cui parlo, e riesci a immaginarti nelle loro case, nelle loro vite… Fare radio così, a volte, diventa arte.»

Per il resto dell’album basta poi posare l’occhio sulla copertina, dietro la fotografia.

Un nucleo galattico [7], un buco nero abnorme, posizionato esattamente al centro della galassia capace di generare talmente tanta energia da sconquassare tutto ciò che lo circonda… prima lo consuma, lo lacera, l’annienta e infine lo fa suo. Ed eccoli, tutti i corpi celesti che orbitano intorno ad esso: Wather Report, Joni Mitchell, Bob Marley, Rolling Stones, Area che viaggiano sballottolati e accelerati ad una velocità fulminea, capace di generare una luce abbagliante ed eterna quanto mille maniscalchi battenti ferro intenti a forgiare l’arma più pura, per poi schizzare via lanciate nell’universo. Così sono nate le dieci stelle del disco.

Quella singola goccia distillata è il risultato dell’intangibile forgiatura. Quell’irradiante stilla è “Sugo”.

Il disco era pronto, serviva solo un po’ di pubblicità.

«T'aspêto domàn a séia, ti l'arvi ti o conçèrto»

Palalido di Milano, 1975. Finardi e Fabbri apriranno la tournee del primo tour di Fabrizio de André. Neanche il tempo che iniziasse Fabrizio che il pubblico era già consumato. Era la prima volta di “Musica Ribelle” dal vivo, e se poi pensiamo che seguivano nella scaletta pezzi come “La radio” e “Voglio” [8] il pubblico si ritrovava esanime ed asfissiato, prosciugato d’ogni liquido in corpo. Il successo è immediato, Finardi piace soprattutto ai giovani e questo Fabrizio lo sapeva (dopo che dovette recuperare suo figlio Cristiano per aver occupato casa di Eugenio per qualche notte). Finardi disturbava e affascinava proprio grazie all’estrema semplicità nel dire e nel fare le cose. L’attitudine e la sincerità nel cantare era diversa rispetto qualsiasi altro cantautore di quel periodo, il prenderti per mano ad ogni canzone e spiegarti esperienze e vissuto come un fratello maggiore, per farti imboccare una strada tortuosa ma con tutti i mezzi per smussarla, in un clima vitale e sanguinolento, turbolento e vorticoso fatto di morti intellettuali e stragi generazionali raccontato senza filtri. Il suo linguaggio entra realmente nella pelle e fa vibrare le ossa, come una chirurgia a cuore aperto che testimoniava di candore e passione, caustico e necessario, in un’ascesi orizzontale che aveva l’obiettivo di non far mirar lontano ma dentro sé stessi.

Seguiranno novanta date in meno di quattro mesi, tra incidenti e contestazioni, i concerti in spazi occupati tra autonomi e comuni, spinelli ed eroina, faranno il tutto esaurito, appartenenti ad ogni ceto sociale l’invocano in massa alla ricerca di qualcosa di nuovo. Eugenio ti spiattellava in faccia con energia e violenza inni uno dietro l’altro, fotografando il quotidiano in ogni verso, estrapolando dal personale (politico) poi piccoli frammenti estremamente nitidi. Dalla critica al capitalismo sfrenato (“Soldi”) [9] ai centri di recupero per tossicodipendenti (“Oggi ho imparato a volare”) [10]. Era liberatorio, soprattutto utile e funzionale al movimento, privo d’ogni sovrastruttura. Quelle sere non c’era spazio per la poesia o elucubrazioni fuorvianti.

Tutta la vita on the road, tra gioia e rivoluzione. [11]

Aveva vent’anni e si sentiva eterno.

Qualità e successo sono direttamente proporzionali, tra l’irrefrenabile “Diesel[12], il disilluso “Blitz” [13] e lo sfatto “Roccando Rollando [14], il sodalizio con la Cramps Records continuerà per altri quattro anni fino al 1979.

In quell’anno Demetrio si ammala. Gli viene diagnosticata un’anemia plastica.

Gianni Sassi decide quindi di organizzare un concerto [15] per sostenere le ingenti spese di degenza di Demetrio a New York. Stratos era il pilastro portante -fisico e spirituale- su cui si reggeva l’avanguardistico Santuario Cramps, senza di lui la musica era presto che finita. In quel 14 giugno del 1979 si contano circa sessanta mila spettatori, e sarà presente gran parte della scena musicale italiana, tra cantautorato di stampo classico e band progressive rock. Tra le tante esibizioni, c’è ne una diversa da tutte le altre: Eugenio Finardi che canta “Hold On[16].

«Volevo fare un pezzo… è un mese che si deve fare questo concerto, che è un vecchio gospel, una canzone di 70 anni fa, uno spiritual, e si chiama “Hold On” e vuol dire tieni duro, al limite da ieri ha un altro senso»

Esattamente un giorno prima del concerto il corpo di Demetrio collasserà, morirà il 13 giugno 1979.

Il pubblico è attonito, Eugenio si siede, solo chitarra e voce, due strumenti. Lui darà priorità al secondo ed inizia a suonare. La voce d’un cane che bercia esanime, d’un vomere che squarcia ripetutamente la terra, la marca e la rimarca, d’una lira che scuote e ripercuote, tenendo in vita le divinità ctonie. Il Blues è l’erbaluce ramata d’ogni sagrato desolato.

Demetrio muore, Eugenio lascia Milano e l’etichetta discografica Cramps Records chiude per sempre. La primavera dei vent’anni è finita.

«C’è una data in cui finisce il movimento, l’utopia di cambiare il mondo.»

Oggi sono passati più di 40 anni dall’uscita dal suddetto album e di cose ne sono successe. Il “fibrillante” [17] Eugenio “Musica Ribelle” non la può più cantare, fisicamente non riesce e si scontra continuamente con le richieste egoistiche e petulanti del pubblico. È riuscito a rappresentare uno spettacolo musico-teatrale al Teatro la Scala di Milano [18] realizzando così il sogno di due vite, quello suo e di sua madre, la stessa che per tanti anni fu docente di lirica proprio in quel teatro, e che non poté mai esibirsi poiché ipovedente. Salire su quel palco rappresenterà la chiusura di un cerchio, il momento più alto di tutta sua carriera. Gli hanno dedicato finanche un asteroide, il “79826 Finardi“. Chissà se la desidera ancora una terra tutta sua per ricominciare, lì tra Giove e Saturno [19], lì, dove le stelle stanno ad aspettare. [20]

Sugo è stato ed è un continuo impegno ed un’infinita guerra. Addebitandoti la voglia di suonare, fare, affrontare e cambiare: piace come le cose che piacciono, ecco, a vent'anni.

A Eugenio e Demetrio.

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