Vangelo è la buona novella o il lieto annunzio, la parola che reca con sé un futuro radioso.
Apocrifo è ciò che vien tenuto celato agli occhi, poiché reca con sé ignominia o scandalo.
E che all’età di un anno venisse portata, Maria —e con indosso una dimessa veste decorata col simbolo della purezza e d’innocenza piena e con un patema nel cuore— al cospetto dei sacerdoti del Tempio, ed in quel luogo lasciata in solitudine ed attesa, è quanto i Vangeli Apocrifi raccontano, agli occhi di coloro ai quali non fùor più celati.
Fabrizio, in odor d’umana troppo umana sacertà, eclissandosi in un tempo vagheggiato appena, dice di come al cangiarsi tiepido della stagione ed al non bussar della Primavera, Maria giacesse come oggetto abbandonato, china e tacita, nel Tempio. E di come poi, donna tra le donne e umana tra gli uomini, come uomo suo figlio e non certo divino ed altèro, di metafora in metafora e di sogno in sonno si travasasse la vita.
Ma le stelle che, contendendosi la nerezza del cielo, guidavano un vecchio col suo cammello dal passo sempr’eguale, guidavano ancora il gioco stesso di queste metafore, lisce e perfette.
Soltanto carezzandone, come la mano ruvida piano carezza, il supporto in polivinilcloruro ed addrizzando l’orecchia, si può comprendere l’idea che, limando e rilimando, Fabrizio ebbe la bontà di trasporre in parole. Tra il primo lato, che racconta della giovinezza di Maria e della sua solitudine, ed il secondo, che della disperazione della madre racconta e di Joshua —che mai si scorge se non di lontano e vagamente— l'umana morte, nell’attimo che scorre a capovolgerne il verso, passano trentatre anni, giorno più giorno meno.
Dell’uomo, di qualunque uomo, parla qui Fabrizio, e non di religione. Che poi quell’uomo si chiamasse Joshua, e che della sua crocifissione una cosmogonia ed un’escatologia fosse fatta da altri, importa poco o nulla.
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