Non posso pensarti figlio di Dio
ma figlio dell'uomo, fratello anche mio

La buona novella è una delle opere più difficili di Fabrizio De Andrè; ostica non tanto per i propri contenuti quanto per la propria, radicale, scelta di forma: erano gli anni della contestazione, aprire un'opera con un coro cristiano - annunciando la tematica evangelista che ammanterà tutte le canzoni - denota la volontà di andare contro il senso comune, venendo sbeffeggiato dagli strati più floridi della società. I giovani criticheranno il cantautore, nonostante De Andrè, utilizzando un apparente distacco, intendesse parlare proprio delle pulsioni che animavano le lotte dell'epoca. Mi viene in mente Pier Paolo Pasolini, il quale negli stessi anni scrisse di non schierarsi dalla parte dei "figli di papà" - coloro che invocavano la rivoluzione - ma dalla parte delle forze dell'ordine, essendo questi ultimi gli autentici appartenenti alla classe proletaria; Pasolini era forse un reazionario, magari un fascista? Assolutamente no, così come De Andrè non aveva remore a definirsi anarchico: conformità genetica che lo spingeva ad elevarsi sopra la società, commentandola per allegorie, metafore e sberfletti. Negli anni a venire, la massa dei rivoluzionari non avrebbe trovato sbocco alle proprie elucubrazioni, invece De Andrè sarebbe rimasto sempre fedele alle proprie idee - poche ma fisse, come dichiarò in un famoso concerto - poiché egli fu capace come pochi di comprendere il segno del proprio tempo: nobile commentatore di un'epoca ferma a una concezione superficiale dell'uomo e del sistema.

Questo quarto album in studio del cantautore è, per definizione, un'opera classica: egli non parla della vita del Cristo e dei suoi vicini adottando sonorità contemporanee, tanto meno si lascia cogliere da influenze esotiche che imperavano nei primi anni settanta: La buona novella è un disco arcaico e sfacciato. Un album scarno e per certi versi inquietante, così come lo erano le sonorità di Volume I e Tutti morimmo a stento, non ancora rese digeribili dalle collaborazioni con la PFM o Massimo Bubola; De Andrè, come farà sempre davanti alle tragedie degli ultimi, si cala al fianco del suo Cristo, ne analizza la delicata avventura umana, contrapponendola ai crimini del sistema oppressivo che lo attanaglia e lo porterà alla morte.

Il ridondante utilizzo dei cori, la scelta di una resa musicale scheletrica, rendono La buona novella un'opera che appare senza tempo così come poco avvezza a orecchie superficiali, pronte a gridare alla blasfemia (invertita) non appena si affaccino richiami al Vangelo. Eppure, superati i canti di Laudate Dominum, basta ascoltare pochi secondi de L'infanzia di Maria per carpire un evidente riferimento alla realtà di quegli anni, al Maggio francese che Faber rievocherà in Storia di un impiegato:

E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio
avevi dodici anni e nessuna colpa addosso
ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio
la tua verginità che si tingeva di rosso

Venuti meno gli archi febbricitanti sostenuti dai cori nella parte finale della canzone - la quale sembra estrapolata da una pièce teatrale, così come Laudate Hominem alla chiusura del disco - una litania ipnotizzante pervade sia Il ritorno di Giuseppe che L'infanzia di Maria. Inizia a tracciarsi una linea che rievoca una crescente esperienza lisergica, portando l'anima a volare sopra le case, oltre i cancelli, gli orti, le strade dell'antichità, così come sulle vie, sulle contrade, che animano la realtà che viviamo tutti i giorni. Il connnubio fra religione arcaica, slegata da qualsiasi concezione clericale, e l'analisi delle eterne inclinazioni dell'uomo, torna ad affacciarsi nel pezzo più rinomato di tutta l'opera: Il testamento di Tito. Il cantautore genovese parla del ladrone così come fece ne Il cantico dei drogati per una figura distante, eppure simile nella propria invettiva, nello sputare le ultime gocce di veleno prima che la morte giunga a spazzare via il corpo e la mente.

Dopo quest'opera controversa, Fabrizio De Andrè tornerà l'anno successivo con il meraviglioso Non al denaro, non all'amore nè al cielo, allontanandosi da quella ricerca primordiale che rende i suoi primi lavori così viscerali: opere grezze che non torneranno più, intricati labirinti che è possibile sbrigliare solo ascoltando attentamente, volgendo gli occhi al cielo fino a cogliere i colori di altri mondi (che non so).

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