Penso che sia impossibile trovare qualcuno che non abbia mai sentito parlare di De André. Perché con la sua semplicità, con la sua poesia, con le sue grandi capacità compositive ha sfornato un capolavoro dopo l'altro. Merita tanto (anche di essere recensito ben 47 anni dopo la sua pubblicazione) quest'album. Canzoni sicuramente non allegre o da satira (per quello c'è "Rimini") ma, se il reparto testuale è di così alto spessore, di così grande impatto emotivo, l'allegria passa in secondo piano. Basta sentire la purezza e la rarità delle storie che il mito genovese racconta in brani come "Il suonatore Jones" o "Un ottico". Poesie accompagnate da dei suoni acustici, ricercati ma non pomposi, studiati talmente tanto bene, che dimostrano una preparazione musicale non da prima elementare. In realtà ci sono nell'album anche brani ("Un medico", "Un chimico", "Un giudice") che fanno della musica uno strumento per raccontare in maniera ritmata e incisa storie in realtà tristissime, di uomini lasciati al destino, morti o abbandonati sul lavoro, per il loro carattere solitario, per le deformazioni fisiche. E poi ancora grandissime canzoni che san rendere meno tragiche il racconto di matti, blasfemi, malati di cuore, con sonorità semplicissime, ma con un effetto indescrivibile, quanto meno su chi ascolta bene. Ma non da tutti i giorni. Del resto l'anello di congiunzione tra i cantautori compositori (Fossati, Dalla, Battisti) e i cantautori poeti (Guccini, De Gregori, Gaetano) era e sarà solo soltanto lui, almeno in Italia: De Andrè.
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