In questo avaro, almeno personalmente come nuove uscite discografiche, 2018 mi sono eccitato in maniera folle soltanto in occasione del ritorno degli Sleep; la stessa cosa è avvenuta proprio in questi giorni grazie all'ascolto del primo lavoro sulla lunga distanza di tali Fakir Thongs.
Habanero in realtà è un lavoro pubblicato agli inizi del 2015; ma ho scoperto la band di Modena lo scorso sabato quando ho conosciuto il bassista Alex che da poco si e trasferito a Domodossola, precisamente a poche centinaia di metri dalla mia abitazione. Visto il comune amore per certe sonorità abbiamo impiegato una manciata di minuti ad entrare in sintonia; il bassista mi ha regalato i due dischi che la band ha composto. Questo è il resoconto scrittorio del primo: una vera e del tutto non pronosticata sorpresa.
Si prendano le seguenti dosi di riferimenti musicali per quantificare il voluminoso peso specifico delle dieci canzoni che costituiscono la torrida impalcatura uditiva del disco: un buon 40% di desertico Hard-Stoner che si dirige senza ostacoli dalle parti dei Kyuss; un 30% di Heavy-Fuzz distorto e famelico che guarda i primi lavori dei giganteschi Monster Magnet; ed ancora un altro 30% di acidosa Psichedelia settantiana che si libra nell'aria proiettandosi nella dimensione spazio-temporale tanto cara agli Hawkwind.
L'approccio tellurico di questi quattro acid-freakers guarda indietro negli anni, fermandosi in quelle "atomiche" annate dove le chitarre super-distorte erano assolute protagoniste. Ma non c'è solo rumore e distorsore aperto a manetta; riescono ad abbassare i toni, entrando in una dimensione profonda, ipnotica e sublime come accade nei sette minuti (appunto) di "Seven". Coinvolgenti ed avvolgenti con un imperioso basso che si erge al di sopra degli altri strumenti.
L'iniziale "Storm" è figlia di Josh Homme; con quel riff di chitarra così saturo e dirompente che mette subito in "allerta" l'ignaro ascoltatore sul percorso intrapreso dalla band (e posso dire di aver subito io stesso la cosa fin dal primo ascolto). Al termine del trip uditivo pongono la strumentale "Domus de Jonas": una fuga Progressive-Rock verso l'assoluto, verso lo spazio, verso l'infinito.
Non si inventano nulla sia chiaro; ma perchè cercare innovazione quando si può puntare con polverosa decisione verso suoni che mai, almeno nel mio caso, stancheranno?
A voi la risposta debaseriani...RIFLE DOWN BLUES...
Ad Maiora.
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