Molti non sanno che Florence Foster Jenkins è stata ospite al programma La Corrida, si esibì con il suo cavallo di Battaglia, l'aria “La regina della notte” tratta dal Flauto Magico di Mozart.

Al semaforo verde fu un tripudio di campanacci, fischi e tricche e tracche, l'effetto dei cani che abbaiano, la faccia divertita del Maestro Pregadio, Corrado che cinicamente spendeva parole di incoraggiamento ma sotto sotto se la rideva più di tutti.

Forse la mia mente, in odore di senilità, sta sovrapponendo due realtà diverse, regalando un mash-up di situazioni. La Jenkins non partecipò mai a nessun programma televisivo. Era una eccentrica dispensatrice di fondi per incoraggiare musicisti che orbitavano nella scena musicale della East Coast.

Il tizio che veniva deriso in tv era John Cage, in cerca di quattrini per produrre le sue opere.

Ed è un peccato che queste due personalità non si siano mai incontrate: si sarebbero aiutate, vicendevolmente. A Cage i fischi e gli schiamazzi rivolti alle sue composizioni, servivano, non solo per soldi, ma anche per portare a compimento i suoi esperimenti, musicali e filosofici.

La Jerkins, i fischi li conobbe, nella prestigiosa Carnegie Hall, davanti a una platea che non aspettò neanche il semaforo verde per coprila di ululati e ingiurie. Voleva aiutare i giovani ragazzi coinvolti nella guerra, regalando loro due ore di musica e arte. Aveva un cuore, questa donna. Un cuore tutto da capire. Ma stavolta, senza nessun riparo, senza nessun pubblico selezionato, nesuna recensione pilotata, la verità la scosse inevitabilmente, portandola alla morte.

Fu quel giorno che Florence, comprese come non mai che aveva creato un mostro che rispondeva al suo stesso nome. Negli anni in cui incoraggiava economicamente Toscanini e assisteva a concerti di usignoli tecnicamente validi, una parte del suo cervello glielo diceva anche: “Miss Jenkins, lei canta da far schifo. Lei, Miss Jenkins, è stonata, ridicola, patetica”.

A parlare era il dio del bel canto, dio doremifasolasidò.

Maledetta camerata de' Bardi e maledetto Galilei padre, così presi dalle teorie di Aristosseno di Taranto, il mito dell'antichità ellenica e questa voglia di tirar fuori il recitar cantando e il gene del temperamento equabile. Si andava così bene a madrigali aspri e virtuosi, sacralità e trascendenza, bordoni e genialate profane, liuti del volgo e terze emozionanti.
E l'America ai nativi.

In quella nuova America, invece, a un passo dal potere ma ancora così ruvida di esperienze culturali, Lou Harrison cominciava a buttar giù la Sinfonia per Percussioni, ispirato anche dal percorso di Charles Ives, un tizio che nei primi del Novecento cominciava a rendersi conto che la tonalità aveva già detto tutto. E anche John Cage, negli anni in cui la Jenkins raccoglieva fondi per il logos virtuoso, cominciava a comporre le sue prime opere, così d'ambiente, così Satie, in quell'indissolubile legame Parigi – New York, che ha cambiato le regole artistiche del secolo scorso.

Se Florence Foster Jenkins c'avesse visto lungo, avrebbe congedato Toscanini e avrebbe sposato la nuova causa dell'avanguardia a stelle e strisce e allora sì che sarebbe diventata un'icona positiva. Non avrebbe mai conosciuto l'umiliazione degli articoli impietosi a lei sempre nascosti e avrebbe potuto supportare economicamente artisti coraggiosi che avrebbero visto nel suo canto calante e fastidioso, magari, anche una gradita novità.

Il suo canto sgraziato sarebbe diventato atonale, sperimentale, voluto e fottutamente nuovo: una Cathy Berberian tutta da capire. E qualcuno c'avrebbe creduto anche. E in fondo anche lei aveva una sua estetica: per accompagnarla al piano scelse Cosmé McMoon, il musicista con il tocco più sensibile, quello stesso tocco che aveva Cage quando scrisse Imaginary Landscape No 1.

McMoon, pagato a suon di quattrini era il pianista eletto che la accompagnò nel corso di quei concerti ma anche nelle sue prime incisioni discografiche e in quel carnaio della Carnegie Hall. Alla morte della Jenkins, bruciato e schernito dai cultori del bello e dai cultori del nuovo che avanza, lasciò tutto per dedicarsi al body building.

“La gente può anche dire che non so cantare, ma nessuno potrà mai dire che non ho cantato”.

È la frase simbolo della clamorosa biografia di questa strampalata signora bene, il risultato ossessivo di un rapporto tutt'altro che semplice con il padre che la diseredò per aver deciso di dedicare la sua vita alla musica. L'orgoglio di spuntarla sul dogma paterno, riusciva a edulcorare e travisare l'evidenza fino a renderla irreale. Eppure le sue pubblicazioni sono state un successo discografico. Un successo inspiegabile, se non fosse per una chiave di lettura cinica, figlia di quella gran voglia di farsi due risate tra una guerra e l'altra.

In pochi furono interessati al suo aspetto emotivo, pochi, ai tempi, riuscirono a trovare valida letteratura capace di raccontarla al di là dell'effetto buffo e grottesco. L'album contiene le sue interpretazioni più famose: Da La tabacchiera di Lyadov, a Like a Bird e Serenata Mexicana, composte dallo stesso McMoon, L'aria delle campanelle tratta dal Lakmé di Delibes. Il Pisistrello di Strauss (la mia preferita).

La Jerkins ha tre eredi. Tre ragazzotte bruttarelle costrette dal padre a esibirsi in pubblico nonostante fossero un trio di emerite incapaci. Le Shaggs, vittime anche loro di quel fatale match padri – figlie, anche loro incapaci di razionalizzare la realtà. Anche loro diventate icone di un mondo di perdenti.

Mi piacerebbe se l'aldilà esistesse veramente, giusto per dare a Florence la gioia di vedere se stessa interpretata da una straordinaria Meryl Streep (il film in Italia dovrebbe uscire a dicembre).

Ma mi piace anche immaginare un'altra verità: la Jenkins trollava le arie d'opera, perché le trovava discorsive e prevedibili, lontane dal nuovo. Quando Feldman e Cage abbandonarono un concerto dopo aver ascoltato Webern, perché “tanto era inutile ascoltare il resto”, mi piace pensare che andò via anche lei ma inciampò sopra uno dei suoi pittoreschi abiti e non conobbe mai quei due.

Mi piace pensarla sovversiva, satura di un bello già detto, desiderosa di destabilizzare un ambiente avido e incapace di dirle in faccia che cantava da far schifo.

Ma forse, purtroppo, non è andata così.
Era solo una mente stonata con un'anima dal tocco delizioso.

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