Essere autenticamente rocchettari significa anche farsi venire i brividi di gioia incrociando dischi così, registrati con i musicisti che suonano in studio tutti insieme, affiancati l'uno all'altro come sul palco, con l'unica variante del cantante messo di fronte a loro, a guardarli e farsi gasare mentre abbaia nel microfono. Altro che basi e sovraincisioni, qui il feeling è tutto, e se un passaggio vocale è un poco stridulo o uno strumento prende una nota imperfetta pazienza, l'importante è l'atmosfera, l'anima del pezzo.

I Foghat hanno pubblicato non meno di una quindicina di dischi a partire dal 1972 (questo se non erro è l'undicesimo, anno 1984) e tuttora calcano orgogliosamente i palchi in America, e mi riferisco ai due componenti del gruppo originale ancora vivi e vegeti, insieme ai sostituti di quelli che non ce l'han fatta fino a qui. La storia dei Foghat ha radici negli anni sessanta, nella scena inglese del British Blues: a quell'epoca il genere furoreggiava ed oltre a gente come Stones, Cream, Mayall, Free, Yardbirds (poi Zeppelin), Taste, Groundhogs, Animals e altri andavano alla grande anche certi Savoy Brown, guidati dal chitarrista Kim Simmonds i cui modi da ducetto si riverberavano in frequenti avvicendamenti del personale (pure il futuro Yes/King Crimson Bill Bruford fu ingaggiato ma cacciato quasi subito, per manifesta mancanza di feeling nel suonare il blues! Oh yes...).

Il più vistoso di questi viavai di musicisti, nonché la genesi dei Foghat, prese le mosse quando il secondo chitarrista Dave Peverett fu sorpreso un giorno dal "capo" mentre alle prove jammava di gusto in stile rockabilly, con evidente e invidiabile trasporto generale, colla sezione ritmica intanto che Simmonds era in pausa pranzo. La lite furibonda che seguì culminò coi tre che voltarono risolutamente le spalle al loro ruolo stabile ma frustrante di stipendiati in seno ai Savoy Brown, lasciando Simmons con un palmo di naso. Trovare una chitarra solista per mettersi in proprio fu facile ed esaltante, visto che il nuovo elemento Rod Price era per certo un fuoriclasse della slide guitar, vero e proprio Duane Allman d'Inghilterra. A quel punto il potente produttore dei Savoy Brown si fece in quattro per metter loro i bastoni fra le ruote, operando perché non trovassero ingaggi in tutto il Regno Unito ed ecco allora la decisiva mossa di Peverett e compagni, quella di lasciare la scena londinese e trasferirsi in pianta stabile negli USA, là dove tutto era cominciato quindici/venti anni prima grazie a gente come Bo Diddley, Elvis Presley eccetera.

Foghat è quindi un gruppo britannico ma con carriera e suono decisamente americani: quattro inglesi purosangue che, quindici anni dopo l'invenzione americana del rock'n'roll, si piantarono in quel paese decisi a richiamare e rinvigorire una musica pressoché dimenticata laggiù e che invece in Gran Bretagna stava vivendo una riscoperta ed una evoluzione magnifiche.

Il bravo e sfortunato Peverett (se n'è andato all'alba dei duemila a causa di un male che non perdona), illuminato sulla via di Memphis dal buon Presley come tanti, più che un bluesman era un puro rock'n'roller, lo si capisce ad esempio dalla sua inclinazione a farsi effettare la voce, in studio come dal vivo, col cosiddetto slapback echo, un'unica ripetizione corta e inintelligibile, che dona al cantato una sonorità inconfondibile e una fortissima connotazione anni cinquanta.

I tre musici che lo contornano lo hanno sempre supportato viaggiando come treni, insaporendo di blues e inspessendo di hard rock la ricetta anni cinquanta del leader. Il groove che ne consegue è grezzo, vivido, schietto, simpatico, irresistibile per i veri rocchettari, come già affermato. La sola particolarità di quest'album, rispetto a tutti gli altri della formazione, è che è fatto solo di cover, ma poco cambia: il suono, l'atteggiamento, l'entusiasmo, l'approccio sono quelli, è boogie rock stra-sincero e super meritevole.

Giusto un paio di citazioni dalla scaletta di quest'opera, per finire: per prima l'irresistibile resa della "Ain't Living Long Like This" di Rodney Crowell, con un lavoro di chitarra solista di Erik Cartwright (colui che aveva preso il posto del povero Price, allontanato dal gruppo per... inaffidabilità etilica e in seguito morto in un incidente domestico, nel 2005) esaltante: lo strumento compresso a palla di fuoco sul canale destro, con un timbro sublime, filamentoso e sonorissimo, creativo, ficcante. Una delle migliori parti per chitarra che io conosca.

Per seconda, la tellurica rilettura di "And I Do Just What I Want" di James Brown, una faccenda di pura energia, straripante di grinta, con un leggendario pre-finale strumentale tra il virtuoso, il pazzo, il divertito e lo schizzato. Una corsa a valanga per tre minuti e poco più, senza fare prigionieri, una delle cose più rock che abbia mai sentito, praticamente ultra punk se non fosse che questi sanno suonare (sentite il bassista Nick Jameson), e urlare, e divertirsi a suonare, altro che nichilismo.

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