“Io so che son venuto dalla fica e so che lì voglio tornare”.

Bianconi solista si toglie gli orpelli pop rock e quella patina accuratamente costruita per andare all'osso del suo sentire. Il bene, l'abisso, la fica, l'amore, dio. Pochi concetti fondamentali ma affrontati senza facili nichilismi. Avvicinati con circospezione, come se fosse la prima volta. Ed è questa la bella novità lirica che già negli ultimi dischi con i Baustelle stava portando avanti.

Ma a differenza di quei lavori, che erano pieni di immagini un po' usa e getta, riempitive, qui ogni parola pesa, è pensata e ripensata, assaporata come un liquore di sofferenza conoscitiva. E tutto il resto fa da corona alla voce: basso e batteria tacciono, gli archi e il pianoforte colorano gentili gli spazi liberi e si placano subito dopo, perché senza il frastuono della musica le parole assumono un'altra importanza. Un altro magnetismo.

Bianconi prosegue l'opera di decostruzione del pessimismo retorico che lui stesso aveva molto favorito (pur con apporti di qualità) nei due decenni precedenti, salvo poi distaccarsene di fronte all'uso standard che ormai aveva invaso la canzone indie e in generale la fetta “alternativa” del pensiero occidentale. Oggi non c'è niente di più retorico di dire che la vita fa schifo.

E allora lui, animale selvatico, rifugge i facili mal di vivere come i facili beat anni '80. Fa un disco di contenuti misuratissimi e tanta bella musica, che si affaccia umile al nostro ascolto. Melodie quasi cantilenanti, volutamente sgraziate, con metriche clamorosamente imperfette e pochi ritornelli, poca voglia di facilitare l'ascolto e la comprensione. Il percorso per arrivare alla saggezza dobbiamo farlo anche noi, non può esserci regalato così. Ognuno ha il suo, di abisso.

Una metà delle canzoni porta i significati più forti, le altre sono un pregevole contorno stilistico, che è un'altra sorpresa: atmosfere davvero non banali, jazzate, che profumano di una malinconia esotica. Melodie vespertine, composte, una cattedrale risuona di timbri agrodolci. Nel brano cantato in arabo la suggestione tocca il soffitto. Le voci di Kazu Makino (Blonde Redhead), Hindi Zahra (cantante e attrice marocchina-francese) ed Eleanor Friedberger (The Fiery Furnaces) danno la giusta tregua dai timbri impegnativi di Bianconi.

Un lavoro in (apparente) sottrazione anche per valorizzare al massimo i contenuti dei brani principali, ma la cura nella costruzione degli scenari musicali è certosina, anche nella sottrazione. Sembra quell'invisibile del grande cinema che non sai di vedere ma il tuo occhio sì. Ecco, qui funziona allo stesso modo con l'ascolto. E tutto conduce a quei quattro o cinque momenti in cui l'eucarestia di cui eravamo alla ricerca ci viene consegnata, se siamo pronti a riceverla.

I contenuti di questo disco rappresentano delle significative conquiste per la vena da cantautore del nostro e della scena tutta. Una rottura della quarta parete che al suo meglio ricorda la schiettezza gucciniana, come quando dice: “Da quel giorno abito un fondale di paura / Guardo il mondo senza gli occhi che vorrei / Perché conosco bene gli uomini / Racconto i loro demoni / Ma non riesco a vivere coi miei / Perché io puntualmente evito l'abisso / Per paura di incontrarlo quando il giorno arriverà / Perché mi pagano per scrivere / Io sono bravo a fingere / A far bella figura in società / Alla mostra delle atrocità”.

La forza antiretorica e volutamente disturbante del disco è suggellata nell'uso della parola “fica” proprio nel cuore del ritornello di Certi uomini, uno sberleffo al bon ton e alle tante canzoni che vorrebbero rompere i tabù ma in realtà non fanno altro che adeguarsi al gusto imperante.

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