La supposta “Conceptual Continuity” zappiana, perfetta unità e coerenza di vita ed arte, se osservata dal di dentro della sua sterminata opera, acquista viepiù credibilità. Tommaso d’Aquino diceva che l’artista si cura di quel che crea e questo Frank Vincent non ha mai smesso di farlo. Quindi si può avvalorare la tesi, di per sé bizzarra, di una identità strutturale nella concezione di tutta la produzione del maestro di Cucamonga, che, poi, non difetta, mai, in quanto ad efficacia e valore.

Dopo l’interludio Doo-Wop di “Ruben and The Jets” e “Lumpy Greavy”, balletto composto da Zappa al banco di montaggio, unendo parti orchestrali e bandistiche da contesti diversi e disparati in una ubertosa attività di postproduzione, arriva “Unkle Meat”, come il buongiorno. Come una domanda.

Unkle Meat”, pura illazione, è Unkle Sam, il tritacarne. Si verifichi il collage aberrante della copertina.

“King Kong” è l’uomo bestiale e goffo redento dall’amore. Ma impossibilitato alla via che lo consegua. Esperienza di un mistero tragico e inesorabile. Male da tollerare. Non da razionalizzare. Dramma cinematografico, letterario e, superando entrambe, drammatizzazione in musica.

Le variazioni sui due temi portanti, che segnano il passaggio dagli sberleffi collagisti della trilogia psichedelica alla produzione orchestrale, attestano un altro significato dell’opera, ovvero la sua funzione antiaccademica.

Poi l’antropologia teologica zappiana. Contro Hegel, la sostituzione di Dio attraverso l’uomo era divenuta programmatica con Feuerbach, Stirner, Marx e Nietzsche. Cosa non molto vantaggiosa, per quanto Hegel cazzeggiasse con la razionalità di tutto il reale e, nella medesima misura, con la realtà di tutto il razionale. L’intenzione antimetafisica, come la perdita del Sacro o la ragione scissa dalla facoltà immaginativa, sono propizie tanto quanto le emorroidi esterne trombizzate, forma degenerativa di una patologia, in sé e per sé, già orribile. Non si tratta solo di “sentirsi bene” per il Duca delle prugne, che prontamente ci solleva da queste questioni querule! Ci presenta, invece, un uomo divertito e in salute. Intelligente e musicofilo. Un’immagine divina.

FranK, che per comodità chiameremo Vincent, rispedisce al mittente la critica adorniana dell’arte abbassata a mero intrattenimento; ne restaura invece la dignità, attraverso la cognizione di una perfetta reciprocità e comunione dei due termini, nient’affatto antitetici. Come? Combatte la musica colta col Rock e il Rock con la musica colta. Ne fa l’una la condizione di possibilità dell’altra. Occupandosi però -e sempre- di tutte le questioni della musica accademica, inglobandole, conglobandole nelle sue composizioni, e sbeffeggiandola, in ogni pretesa istituzionale. Altro che controversista o dogmatico! Purtroppo, difficile accettarlo, Vincent finisce per essere al di sopra di quasi tutte le questioni musicali. Questo, non vuol certo dire che non abbia mai sbagliato un colpo. Ma la mira non gli difetta. Non ci sono solo buone intenzioni, piuttosto c’è il giocarsi sempre tutto, senza negligenze, né distrazioni. Con generosità e con intuizioni profonde. L’ascoltatore assiduo, riesce a trovarle e, da questo contatto, si arricchisce: latte per i lattanti, crema di formaggio per gli altri. Una compenetrazione di tipo panico. Di più. Una percezione potente e piena. Quella sovrabbondanza poetica che ci toglie un po’ di miseria di dosso.

Il suo ideale di musica e di conoscenza onnivora si rivela liberamente a ciascuno. L’album, la canzone, il frammento, la smorfia che ti ferisce al cuore. O irrita intellettualmente. Il crampo mentale. È lì che comincia il rito iniziatico. Ogni pluralità si consuma nell’unità. Anche noi a inseguir il logos della musica (che FZ ama in modo viscerale, tenero e appassionato, razionale, ma anche carnale e spirituale, totalizzante). E la musica ci viene incontro. Vincent ci tende la mano. E i baffi a punta. Avvertiamo che tutto è pieno di misteri. Che si rivelano a poco a poco. Come Zappa, appunto.

Ma osserviamo alcuni tratti costanti dello zappismo spinto, se non oltranzista.

Il virtuosismo imperioso della performance. Cioè? Esecuzioni di primo rango. Contro il lezioso dogma dell’impossibilità. Action playing. Zappa rigetta la routine concertistica accademica e le relative istituzioni che sviliscono il suo perfezionismo musicale e la sua ferrea disciplina interpretativa. Sempre deluso dalle orchestre con cui lavorò, riparerà, consolandosi, sul synclavier, fino ad incontrare finalmente, ma solo nei ’90, l'Ensemble Modern. Perseguiva il massimo qualitativo, l’esecuzione impeccabile come nessun altro.

La maestria improvvisativa. Più che le pratiche tipiche del Jazz e del Rock, Vincent mette in atto un approccio infrequente per gli occidentali, appoggiandosi alla pratica improvvisativa modale delle tradizioni orientali arabo-ottomane e indiane. Cose toste, speziate quanto i cheeseburgers di Roy Estrada (peraltro accreditati tra i suoi strumenti).

L’immane competenza di scrittura. Le sue partiture complesse, frutto di una pignoleria intransigente, danno vita ad architetture eccezionali. Autentiche mirabilia. Gli arrangiamenti sono sempre accuratissimi. Poi Vincenzo ha quel vezzo di mettere in musica il linguaggio parlato con le sue irregolarità, addensandole con un paradossale e sistematico, per non dir insulso, rigore. La sua pagina scritta assume una dimensione utopica, misteriosamente ricondotta alla radicale improvvisazione originaria. Poi vellica il diatonismo, raramente ricorre all’arricchimento cromatico dei contesti melodico-armonici, per i quali, preferisce bazzicare col modello lidio.

Il Sound editing /Sound engineering. Frank, al banco mixer (finalmente da 12 piste con “Unkle Meat”), si profonde in estrose manipolazioni e sovraincisioni, rallentando e/o accelerando i nastri per ottenere assoli iperveloci, voci deformate, sonorità inedite, effetti clowneschi e, ancora, per inventare intrecci, commistioni e tessiture improbabili. Lo studio è uno strumento.

Il cazzeggio erudito. È un professionista del genere. Coniuga satira, utopia e cinismo. Il gusto del paradosso. Ha un etica interna: la liberazione. Di uomo e musica. Caricaturizza e decostruisce la tradizione colta, dall’interno ma senza appartenenze: questo lo strale affilato che FZ scaglia dapprincipio con “Lo Zio” e col suo lessico musicale provocatorio, umoristico, sapido e denso. Poi, irrinunciabilmente, bacchetta i pregiudizi e la società.

Nella sua arte, allora, la teoria e la pratica, la logica esecutiva e la logica improvvisativa, si coniugano attraverso movimenti speculari. Ovunque si guardi, si finisce per ritornare al tutto, col buon Vince. Come nelle biblioteche esagonali di Borges. Tutto che è uno. Conceptual Continuity. La composizione è un processo circolare, non è solo scrittura su pentagramma. È un processo totalmente organizzativo con una ratio forte, colta per quanto bastarda ed eterodossa, un telos ed una trama progettati e costruiti meticolosamente. E nessuna tendenza aleatoria.

Frank di Cucamonga, compositore autodidatta, non è un semplice musicista rock con ambizioni colte. Fa musica d’arte, musica totale, creazioni d’arte. Non eurocolta, non accademica, ma neanche superficialmente antiaccademica. È un factotum. È il demiurgo di un opera organica di 100 album, di 1100 brani più 500, tra cover e rielaborazioni d’altrui materiali. È un compositore in senso tradizionale, d’orchestre e di rock band, capace di pensare il Rock con i mezzi compositivi della musica Classico-Contemporanea. Nel panorama Pop Rock, è il più grande compositore del dopoguerra. Colui che sgretola definitivamente i confini tra pratiche musicali colta e popular. Precorre i tempi. Critica l’Estabilishment musicale perché sclerotizzato, ma ne prosegue la ricerca, anche negli interstizi più beceri e meno considerati.

“Unkle Meat” è il suo capolavoro assoluto. Rock anomalo, insolito, con decisive infiltrazioni sperimentali, forte di un armamentario musicale allogeno, diversificato per forma, armonia e colore. Il maestro nato a Baltimora (Maryland) ha assimilato il “suono organizzato” di Edgar Varèse, i costrutti poliritmici e politonali di Igor Stravinskij, la musica elettronica di Charles Ives e Pierre Schaeffer, le cacofoniche celebrazioni della meccanica di Georges Antheil, la musica utopica del compositore semisconosciuto Colon Nancarrow.

Così, in Zappa tutto diviene ritmo. E il ritmo è fisico, pressante, elettrico. Interpreta le tradizioni folkloristiche balcaniche. Ricorre al ritmo bulgaro, in 7/8. Adotta i ritmi additivi, interpolando o sopprimendo semicrome in struttre ritmiche altrimenti regolari. C’è la passione per la prosodia della lingua parlata, che cerca di riprodurre non solo nella ritmica, ma anche sotto il profilo melodico-armonico, fino a spingersi agli assoli di chitarra. Sfrutta l’emiolia, passando dalla suddivisione binaria a quella ternaria. Le sue linee melodiche privilegiano il diatonismo e ama il modo lidio, tipico dei Balcani, laddove il jazz e rock nella loro tecnica compositiva corrispondono il dorico e il mixolidio. Basta così. Andiamo al supporto fonografico in oggetto.

Unkle Meat” è dunque musica liberata, totale, obliqua, spinosa. Terra. Carillon, sarabande, pezzi strumentali, esperimenti sonori e filastrocche. È l’inclusione globale dei generi: rock, blues, classica, avantgarde, fusion, free jazz, doo-wop, vaudeville, recitazione; la fusione di rock e Jazz.

Vincent, si era appena affrancato dalla Verve e, fondata la Bizzarre, estende questo doppio LP. L’opera ne guadagna una cura maggiore. Anzi smisurata. Siamo tra la fine del 1967 e l’inizio del 1968.

“Unkle Meat” dispiega il suo tema in due minuti di asimmetrie di vibrafono, clarinetto arabo e accordi appuntiti di clavicembalo. Cinguettano, non tartagliano, si spigolano. Nella danza di un dio minore. Nel rivolo dove una ninfa si bagna. Una miniatura emblematica, tra Antheil e Nacarrow, pigolante nel contrasto ritmico tra scansioni differenti. Emerge la sua idea di “Xenochrony”, strana sincronizzazione, cioè gioco poliritmico. L’andamento ritmico in battere apparentemente è regolare, ma consta in una puntualità errata (poiché Zappa, spostando gli accenti su quarti successivi, ci illude di ascoltare una battuta di 2/4, laddove ce ne sono due di 3/4. Facezie del genere ci riserva il maestro di Archibald Boulevard). D'altronde le pulsazioni Zappiane sono sempre fisiche, carnali, scalpiccianti, generano e risolvono tensioni, tra inganni e sottigliezza per niente a buon mercato. Nelle composizioni orchestrali questo genio capriccioso anelerà spesse volte a fare esattamente il contrario (una maggior linearità, spostando l’interesse sui colori e sulle texture).

Il respiro stertoroso del tema di “Dog Breath” compare come un rock’n’roll. Avvertiamo la lallazione come beltà della popular music, mentre si moltiplicano gli strumenti (fiati, tastiere, percussioni, archi). Poi il canto pop, struggente, armonie vocali sincopate, quindi gli innesti classicheggianti del soprano Nelcy Walker, coretti a imitare gli strumenti, una voce ilare anticipa l’idiozia dell’era Chipmunks. Intanto il brano diventa avantgarde orchestrale, i clarini elettronicamente modificati simulano i tromboni. Sulle difformità cala una sublime indulgenza.

I temi, a lui molto cari, di “Unkle Meat” e “Dog Breath” Zappa li riprenderà, fino agli ultimi giorni della sua vita terrena, in “The Yellow Shark” dirigendo l’ Ensemble Modern.

C’è poi l’epica sortita all’organo della Royal Albert Hall di Don Preston che abbozza “Louie Louie”. Lo sporco riff (per eccellenza). La varesiana “Nine Types Of Industrial Pollution”: melodicamente apatica, percussioni scalpitanti e chitarra accelerata in postproduzione. “Electric Aunt Jamina”, componimento semplice, nonsense d’argomento amoroso con Collins in gran spolvero. Grandiosa “Mr. Green Gens” epica, marziale, a tratti, muta in elegia.

La suite “King Kong” comprova ulteriormente il novero di capolavoro. Un preludio in 5/8 e sei variazioni sui 3/4. Le Mothers si mettono nei panni della rock band, dell’orchestra jazz e dell’ensemble da camera. Splendide, briose, vivide, burlesche, farsesche ed elevate risultano la melodia “simplex” del “Preludio”, l’assolo al piano elettrico Fender Rhodes di Don Preston (bellezza devastante!), le svisate frenetiche del sax tenore di Euclid Motorhead Sherwood, il sax soprano Bunk Garder che replica agli effetti elettronici dediti all’imitazione di un contrabbasso. Svetta l’assolo, immortalato live, di Ian Underwood al sax contralto su un tappeto percussivo pulsante patrocinato da Artie Tripp; la chitarra di Frank arrovella incantamenti panici, gli strumenti vengono accelerati, dopo il solo di batteria (di Jimmy Black), si torna al caos primitivo, primordiale tra gag e pernacchie, sassofoni gommosi e strazianti. C’è insomma da leccarsi i baffi.

Poi, al consueto, intermezzi, sproloqui, barzellette, scherzi tra i membri della band, in un approccio dadaista. Questa componente però, in Zappa, è solo accessoria, non è mai il fine. Pamela Zarubica è l’immancabile, madre di tutte le groupie, Suzy Creamcheese.

Le Mothers of Invention sono performer insuperabili, qui si esprimono al massimo. Zappa dirige e compone, tutto e tutti. Impone ai musicisti anche il suo diniego totale degli stupefacenti.

L’edizione in doppio CD di “Unkle Meat”, l’originale fu edito nel 1969, aggiunge gli sconcertanti estratti dei dialoghi dal film omonimo (concluso solo negli ’80 inoltrati) e “Tengo una minchia tanta”, il cui nucleo fondamentale è estratto da un live palermitano del 1982. La voce “narrante” è del giornalista italiano Massimo Bassoli, che indugia su lombi a misura di pollo. Cose, cioè, seriamente facete.

Dweezil, Moon Unit, Ahmet e Diva Zappa, tuoi figli, possono camminare a testa alta!

Insomma, lode a Franco di Cucamonga!

Grazie maestro!

Grazie ancora.

Tutti ereditano da un genio musicale.

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