Franz Kafka era un soggetto dotato di una capacità di leggere le cose che sconvolgono tanto i semplici lettori, quanto i cultori della letteratura in senso ampio ed alto.

Mette quasi i brividi vedere una sua rara foto, indagare l'aspetto cupo della sua persona, il volto affilato come una lama, corrispondente ad una scrittura che ci sfregia come un rasoio, e ricordare come il suo cognome, scelto dai suoi antenati dopo che un editto dell'imperatore aveva costretto gli ebrei a prenderne uno, derivasse dal greco "kavka", ossia corvo, o cornacchia.

Nero come il corvo, che in certe culture contadine riecheggia la devastazione dei raccolti e la miseria.

"Il processo", scritto attorno al 1915, lasciato incompleto e destinato, come la maggioranza delle opere dello scrittore, a rimanere inedito dopo la sua morte, se non fosse stato per la coraggiosa iniziativa dell'amico Max Brod (certo, un benemerito per la letteratura, ma in definitiva un traditore; un Giuda nel senso proprio del termine, per rimanere in ambito ebraico ed all'eterogenesi dei fini), è uno dei suoi scritti più intensi e più significativi.

La vicenda è nota a tutti, e tutti possono comunque recuperarla facendo un giro su qualche pagina on line, se manca la voglia di leggere direttamente il libro (il mio, nell'ottima traduzione germanizzante di Giorgio Zampa) o si preferisce perdere il proprio tempo nella lettura di romanzacci o letteratura d'appendice, di quella che riempie gli scaffali delle librerie che i più frequentano: ad ogni modo, segnalo per completezza come tratti di un tale Josef K. (K. come l'autore, ma mi piace osservare come "k" sia in matematica uno dei simboli delle costanti, e dunque di una condizione universale) viene sottoposto improvvisamente ad un processo di cui ignora le ragioni, il senso dell'accusa che grava su di lui, e di cui non riesce ad intravedere, fin tanto che lo seguiamo nello scritto, né la spiegazione, né la conclusione.

Tutto il libro segue K. nel periodo, indeterminato, in cui egli è sottoposto a processo, seguendolo in varie esperienze di vita, che vedono il proprio centro nella sua abitazione, nel suo luogo di lavoro, e nell'abitazione del suo avvocato, dove intraprende una strana relazione con la domestica Leni.

La narrazione è frammentaria, risente del carattere provvisorio del testo, in alcuni tratti improvvisato e, nelle note, interpolato da spezzoni e brani eliminati dalla versione pubblicata, ma presenti negli appunti dello scrittore. Il tutto sembra dare un'idea di non finito, di lasciato a metà, fors'anche di spezzato dalla precoce morte dell'autore che diventa tutt'uno con la pagina scritta e con la storia narrata: aumentando la tensione ed il disagio che ci colpisce fin dalle prime righe.

Questo è un aspetto di Kafka su cui mi piace concentrare la vostra attenzione: esistono nella storia della letteratura molti scrittori capaci di creare tensione, paura e disagio nel lettore, direi tanto quante sono le ragioni intime e personali dei nostri disagi individuali, che a propria volta influenzano il modo attraverso cui leggiamo qualunque tipo di scritto (anche le mie recensioni, nel vostro caso): la situazione di Kafka è, però, del tutto peculiare, posto che a mettere tensione non è quanto scritto, non è quindi solo la storia o il tema prescelto dall'autore; a mettere tensione, disagio ed, in ultima analisi, soggezione, è l'opera considerata nella sua materialità, è il libro stesso, è l'esperienza di vita e di scrittura che Kafka ci trasmette in diretta, e che rivive ogni volta che ci avviciniamo alle sue pagine.

Credo che per questo autore l'espressione, altrimenti vaga, del "leggere Kafka" sia appropriata: nell'avvicinarci a questa ed ad altre sue opere, noi entriamo in diretto contatto con lo scrittore, con i suoi disagi, con la sua vita e la sua morte fattesi esse stesse romanzo ed esperienza. Entriamo in contatto diretto con l'autore, non con la raffigurazione astratta e lontana del suo pensiero.

Qualcosa di simile accade per Leopardi, mentre vi sfido a verificare se accade per altri, ancorché celebrati, scrittori, come Dante, Petrarca, scendendo fino a Montale, Buzzati o Moravia, o anche - saltando di palo in frasca - per il pur bravo Calvino de "Il barone rampante" o simili, senza giungere in territorio tedesco con Mann, Musil o uno scrittore che pur a Kafka si avvicina, come Dürrenmatt. Lì, la Parola prevale sull'autore, che resta occulto, lontano, e probabilmente umano. In Kafka la fusione è completa, ci avviciniamo a qualcosa che supera l'umano, o l'umanamente comprensibile, per toccare l'ineffabile.

Sul romanzo di cui sto scrivendo si è detto di tutto, e sarebbe presuntuoso anche pensare di aggiungere qualcosa di nuovo, intelligente o diverso rispetto a quanto altri hanno scritto prima e, probabilmente, meglio di me: Max Brod stesso, se d'interpretazione autentica del pensiero di Kafka si può parlare per interposta persona, sottolineava con acume come "Il processo" affrontasse, implicitamente, il problema della Giustizia divina, incomprensibile, ipotetica ed inarrivabile, aprendo la via alla successiva lettura gnostica che Harold Bloom tenta di prospettare rispetto all'intera opera dello scrittore praghese.

La cosa non stupisce poi troppo, se si considerano le radici ebraiche di Kafka e l'ipotesi di una perdurante coscienza dell'esilio del popolo ebraico (e, con esso, della razza umana, se parametriamo il tutto all'immensità dagli spazi e del tempo), della lontananza rispetto ad ogni ipotesi - ed ipostasi? - di Bene, di Giusto e di Divino.

Se Dio c'è stato, sembra ammonirci Kafka, si è probabilmente allontanato, e, con esso, i suoi valori, come lontano è il Giudice che deciderà (forse? Quando? Mai?) sulla sua sorte, lasciando tutto in sospeso. O probabilmente ha fallito nella sua opera, non sa nemmeno Lui dove sia il giusto e l'ingiusto, non riesce più a separare la luce dalle tenebre, come all'inizio della Creazione.

Non nascondo che la lettura di questo libro mi ha tormentato, e tutt'ora mi tormenta, né riesco a dimenticare l'immanenza, l'incombenza del processo, che si diffonde, come le strutture del tribunale, presenti in labirintici sottotetti che si estendono come un reticolo in tutta la città, in ogni spazio od interstizio (come a dire: in ogni spazio od interstizio della nostra mente, e della nostra anima) in tutti noi: sottile il fatto che K. - il processato - assuma spesso, nei confronti di chi gli è altro, di chi è fuori di lui, sia essa Leni, il proprio avvocato, un commerciante, un cliente, gli stessi toni inquisitori di chi processa, segno tangibile dell'ambivalenza della natura umana, e della fusione della vittima nello stesso ruolo di carnefice, senza soluzione di continuità e senza la possibilità di distinguere frequenter (come tipico dei giuristi), di razionalizzare e di dissezionare la realtà alla ricerca di un sistema e di un ordine, pallido riflesso dell'ipotesi di un Dio intelligente, cui si riallacciano anche le recenti ammonizioni di Sua Santità Papa Benedetto XVI.

Basta tutto ciò? Kafka ci trascina, con sé, nella gnosi irrazionale e nel dolore? Penso di no, e l'intuizione mi è balzata a mente nello stesso atto di scrivere queste mie modeste righe.

Kafka è la prova provata dell'esistenza del Dio di cui nega l'infinito Bene e l'infinito Giusto, proprio nel momento in cui egli stesso, nella stesura dei propri racconti, epistolari e romanzi, incarna la Spirito Creatore e diviene, al contempo, parte del Creato e Creante.

Incarna la perfezione del Divino nell'attimo in cui pone l'Uomo come individuo senziente ed autoriflessivo, autoriflessivo fino al punto di negare Ciò da cui proviene, di negare la perfezione ultima di una Creazione che lo ha contemplato, lo ha previsto e lo ha gettato sul mondo perché egli stesso si facesse Parola e ci mostrasse una delle possibili vie attraverso cui si manifesta il Divino: l'alterità rispetto a sè stesso, la contraddizione degli opposti, financo la preconizzazione di un'Apocalisse affidata ad un corvo, ad un kavka.

Un computer, un animale non può rivoltarsi contro il suo Creatore, come non lo possono fare le leggi immutabili che regolano il moto dei pianeti: lo può fare l'Uomo, creatura eletta che, in ciò, afferma Dio nel momento stesso in cui lo nega, mostrando l'ennesimo volto del Possibile.

Negando il nichilismo di Kafka, riconducendolo - nella dimensione assoluta del Capolavoro - alla negazione di una negazione, possiamo uscire dalla lettura di questo romanzo conciliati con il Divino, non in forza di un credo quia absurdum, ma più intimo e profondo.

Spero rileggiate Kafka alla luce di queste mie osservazioni e riscopriate la sacralità delle cose come buon viatico per l'inizio di questo freddo, ma promettente, 2011.

Un sereno abbraccio!

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