Ho pensato e scritto che frugare nel Decamerone di Giovanni Boccaccio è un po’ come frugare e banchettare nel Paese di Cuccagna o in quello di Bengodi. È per questo che intorno agli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, sceneggiatori e autori del prolifico cinema del Bel Paese hanno attinto a piene mani all’opera, ricavandone trame e canovacci a volontà.
In quegli anni i fratelli Taviani si occupavano d’altro: recuperavano con maestria l’opera di un altro maestro del genere, Luigi Pirandello, che si era esercitato nel suo laboratorio letterario scrivendo le Novelle per un anno. Nel loro Kaos, si respirano le atmosfere Pirandelliane immerse in una Sicilia preindustriale, magica e terribile nella quale i suoi abitanti convivono coi miti ancestrali che lì abitano.
Con queste premesse, inizio a guardare con numerose aspettative questo “Maraviglioso Decameron” dei Taviani.
Ma le aspettative son rimaste tutte deluse.
Di Maraviglioso, infatti, non c’è proprio nulla.
Il film inizia così.
A Firenze dilaga l’epidemia di peste, perciò dieci ragazzi si allontanano dalla città e per due settimane vivono lontani dal resto della popolazione. Lo spazio dato loro e alle loro regole (si divideranno i compiti, racconteranno una storia al giorno, non faranno l’amore) è troppo e non aggiunge nulla.
Come nel libro, la cornice farà da trait d’union tra le novelle.
E andrebbe tutto bene se i ragazzi non sembrassero dei giovani viziati e smorfiosi ad una festa in costume.
A intervalli regolari, si raccontano delle storie straordinarie:
Catalina , moglie di Niccoluccio Caccianimico, appestata, viene esiliata da casa e, scambiata per morta, viene lasciata nella cripta di una chiesa. Messer Gentile di Carisendi, innamorato di lei, la cura e la riporta in vita; riconfortata, la donna, rifiuta Nicoluccio e accoglie l’amore di Gentile.B Bruno e Buffalmacco beffano lo sciocco Calandrino con la beffa dell’Elitropia. Ghismunda è una giovane vedova, figlia di Tancredi, re di Salerno; si innamora di un ragazzo di bottega. Tancredi lo fa ammazzare e fa portare, in un calice dallamato regalatole, il cuore di lui. Ghismunda perciò si ammazza bevendo del veleno dal calice portatole. Si racconta l’amore felice che percorre le celle di un convento, dopo l’episodio a lieto fine della badessa e delle brache e infine si racconta della nobiltà d’animo di Federigo di Alberighi che troverà in conclusione il premio meritato.
Cosa volere di più?
Avrei voluto la leggerezza e l’ironia, il racconto che diventa vita e la vita che diventa racconto, l’amore tragico e l’amor allegro; avrei voluto le persone, nessuno assiste alle vicende raccontate, avrei voluto gli sguardi, avrei voluto il rumore. Avrei voluto l’arguzia, la capacità di affabulare, di ascoltare e intendere. Avrei voluto le risate. Avrei voluto la vita.
Tutto questo manca.
Ma il film ha anche dei pregi
che potrà scovare
solo lo spettatore
Che questo film vorrà guardare.
Carico i commenti... con calma