“Ditegli che non si muore quando si deve, si muore quando si può”

Non ricordo bene le parole, ma è più o meno quello che disse il colonnello Aureliano Buendía alla madre quando lei lo informò del cattivo presagio avuto dallo spirito del padre venuto a conoscenza della sua ultima iniziativa.

La battuta mi è rimasta in testa perché ho avuto l‘impressione che il colonnello vedesse nella morte una liberazione, anche se non sono tanto sicuro che sia questa la giusta interpretazione. È solo una delle tante confuse riflessioni sulla morte che mi è capitato di fare rileggendo il libro in un periodo in cui sono successe un po’ di cosucce che mi hanno portato a farle. E quindi di questo si tratta: non di una recensione, non delle solite quattro pugnette goliardiche ispirate da un’opera che mi faccio nelle recensioni, niente di lontanamente allegro, solo un po’ di confuse incoerenti riflessioni sulla morte.

Le mie radici affondano in profondità in un piccolo paese dell’astigiano che neanche troppo tempo fa era pieno di vita, soprattutto in estate, e sono bastati poco meno di 20 anni per far scomparire ogni traccia di decine di famiglie che vi avevano abitato per generazioni. Qualche lapide e un po’ di ossa è tutto quel che resta. La vita si è trasferita altrove.

Mi è capitato di passare spesso per le sue strade in questi mesi. Ci vivono poche persone ormai, il paesaggio è costituito in gran parte da case fantasma con l’utopico cartello “vendesi” attaccato, che danno l’idea di essere fatte di cartone tanto le ha rese fragili il prolungato abbandono, e di poter essere spazzate via dalla forza del vento come succede a Macondo.

I ricordi di volti che mi era possibile incontrare con lo sguardo per quelle strade da ragazzo, e delle voci e dei rumori che era possibile sentire allora, tutte cose che davo per scontato come immutabili caratteristiche di quel luogo, si sovrappongono alla spettralità odierna e mi viene da pensare a tutta quella vita ridotta in polvere, in nulla.

Cosa è il passato? Ciò che è passato in fin dei conti può anche non essere esistito, è stato tutto un enorme inganno, in realtà è accaduto altro che non ricordiamo. Convincersi che sia successo tutt’altro ha tanto senso come ricordare quel che è effettivamente successo. Effettivamente per chi poi? Per chi ha ricordi che lo giustifichino ad utilizzare quell’avverbio, andati quelli se ne andrà anche il senso di quell’”effettivamente”, tanto ci stiamo riferendo comunque, al nulla, a polvere.

I tremila morti sul treno che non finisce più, i lavoratori della compagnia delle banane, la stessa compagnia delle banane, il colonnello Aureliano Buendia sono una leggenda, non è mai successo nulla di tutto questo.

Va bene capish-people, è probabile che non sia questo il senso delle vicende dimenticate descritte dall’autore, ma a me il libro ha trasmesso questo: il nonsense e l’inconsistenza dell’esistenza. Questo affannarsi a far nascere e crescere figli che prima o poi non ci saranno più, e prima di andarsene si affanneranno a loro volta a far la stessa cosa e così via per generazion fino ad arrivare ad esseri umani verso cui noi ora non possiamo provare alcun affetto perché non conosceremo mai, e di quelli che li hanno preceduti non rimarrà che polvere. Spero nessuno si offenda per queste parole, io non ho figli ma ho il massimo rispetto per l’amore genitoriale. Sono solo riflessioni.

Nella prima parte del libro l’autore si danna ad affastellare strati su strati di vita in modo quasi compulsivo, inanellando in pagine bulimiche con pochi dialoghi e niente titoli, generazioni di Aureliani e Josè Arcadio come sfere di una collana, con le loro tare genetiche, poderosi rostri maschili destinati a saziare insaziabili ventri femminili, affetti pruriginosi ed incestuosi verso le zie. Pure l’utilizzo del surreale, un surreale di pancia, di carne sangue e sudore, sudamericano, mi è parso finalizzato a rendere più pantagruelica di vita l’esistenza stordendo il lettore per poi alla fine fargli assaporare meglio quanto sia illusorio il tutto.

Arriva la guerra e la morte, ma la vita è ancora più forte, i 17 Aureliani, e poi ancora morte. Il gozzovigliare di Aureliano Secondo che riempie la casa di faccende di cui occuparsi, e la fecondità dei suoi allevamenti, sembrano poter avere la meglio sul nulla che invece inizia a guadagnare terreno. E alla fine solo povere.

In questo periodo la perdita di una cara amica, un'anima gentile, per un brutto male mi ha lasciato asciutto come la sabbia del deserto.

Mi capita di pensare egoisticamente ai frammenti della mia vita appiccicati a quella persona che lei si è portata appresso. Persi per sempre. Non mi è più possibile ritornarci per riviverli mentalmente con il sentore agrodocce della malinconia. Posso tornarci si, ma solo a contemplare con rispetto un simulacro, si un simulacro mi vien da dire, un simulacro di un qualcosa che non esiste più. Sono una statua di sale che si sfalda a poco a poco nel nulla. Polvere.

Il genere è messo un po' alla cazzodicane, non avendo trovato un'opzione che mi andasse bene.

Tristezzaaaaaaa, per favore vai viaaaa ...

Carico i commenti...  con calma