Erano gli anni 90, anni in cui si formava quella meravigliosa generazione che portò ad una delle fioriture più belle e rigogliose nella storia del rock italiano. Loro erano i Garage 29, milanesi e varesini con la loro personalissima formula, ancora memore della wave anni 80 per esistenzialismo, poesia e presenza di synth, ma decisamente sporcata e graffiata di grunge e chitarre cattive.
Con i loro compagni e di scuderia e di generazione erano possibili diversi confronti: rumorosi ma meno dei Ritmo Tribale, elettronici ma meno dei Subsonica, cupi ma meno dei CSI, dissonanti ma meno degli Afterhours, unici nella capacità di rappresentare "parteciptivamente" disagio e nevrosi. Il gruppo cui erano più facilmente paragonabili, synth a parte, erano i Marlene Kuntz, di cui però non condividevano il continuo sdegno da maestrini stomacati, esibendo invece una sensibilità più dolente e guadagnandosi pertanto il nomignolo di "MK dal volto umano".
Ma allora non lo si sapeva ancora, erano i primi anni 90 e forse questo fermento non favorì i nostri come ci si sarebbe attesi: le striminzite etichette dell'asfittica scena nazionale non riuscivano a trovare slot per loro, forse per assurdi e talvolta ingiusti casi del destino. Per quanto loro fossero troppo di rilievo, troppo importanti: quando passavano si riempivano i centri sociali, si agitavano le coopertive di lavoro, scoppiavano risse o moti di emotività nei locali più o meno underground. Spesso intervistati da radio e televisioni non potevano rimanere ignorati. Brian K era un baritono cavernoso alla Nick Cave o urlato alla Peter Murphy, Ermanno Monterisi chitarrista solido e dissonante, Flaudio Fusato bassista veloce e preciso, Ciccio Nicolamaria batterista veramente fantasioso.
Alla fine - per estremo paradosso - li prese la Linearecord, sussidiaria della Eri Edizioni Rai, decisamente non una realtà underground. E finalmente nel 1995 fu registrato questo mini che, nel suo piccolo (possiamo ben dirlo), fece epoca. L'Auto da Fé (titolo che in seguito fu vampirizzato da molti artisti, fra cui Frankie HI-NRG e Battiato), era il processo religioso-inquisitorio di condanna all'eretico, 4 pezzi, 4 piccole perle underground per una scena che non smetteva di stupire.
Si comincia col loro singolo allora più celebre, "Castello di Carte", brano in italiano sofferto e autoriale introdotto da parti strumentali venate di suggestivi riff di chitarra. Ritornello irresistibile, variante centrale inattesa, ed ecco confezionato un gioiellino che parla di frustrazione e di chiusura in una prigione simbolica, che può essere mentale o anche solo sempòlicemente culturale. Un inno contro il conformismo borghese, insomma, che incendiò molte piccole radio locali e fu immancabile nella loro attività live.
Il successivo "Axiomatic & Heuristic", nonostante il nome preso in prestito - addirittura - dai Clock DVA (le loro citazioni sono sempre raffinatissime, basti pensare alla dedica del disco tratta dall'I-King) è un brano assolutamente originale, basato su una percussione irresistibile e insolitamenbte allegro, quasi garrulo, in realtà ironico fino al più sprezzante sarcasmo. Un'invettiva contro il paradigma scientista sulla vita.
Allucinante cavalcata post-punk si rivela invece "Beetleseller Dream", in inglese come il precedente ma dall'effetto psichico sconcertante. Chi è il venditore di scarafaggi? L'immigrato, il deviante, il disadattato? E perché odia i passanti, e con loro la società che lo circonda? Perso nel suo sogno velleitario, la sua angoscia esaltata viene vola in una corsa chitarristica a rotta di collo. Che avessero colto in questo disagio l'origine dell'Isis?
Tastiere d'atmosfera introducono l'ultima "The Awkward Age", che nonostante il titolo (anche qui una sorprendente citazione: Henry James) è in italiano. Un brano di chiusura, composto quasi in studio di registrazione, l'inno alla fioritura cerebrale dell'uomo nonostante i feticci umilianti imposti dal consesso sociale. La sua coda rumorosa e malinconica risuona a lungo nelle orecchie dell'ascotatore, dopo la sua fine.
Uscito quando orami gli Afterhours erano al terzo disco, ma poco dopo l'esordio di CSI e Marlene Kuntz, Auto da Fé comunque colmava un'assenza intollerabile. Forse ancora leggermente acerbo rispetto allo stile con cui divennero decisero di proseguire la loro, era un disco comunque tosto e originale, ben suonato e che perfettamente li posizionava in una nicchia unica per energia e intensità autoriale. Il disco che sembrava dover aprire loro le porte per un roseo futuro. Che però inspiagabilmente non fu.

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