Introduzione:
Ipotizziamo che nel 1974 il cantante dei Genesis Peter Gabriel non fosse stato esattamente quello che era, ovvero un artista imbottito di talento (come d’altronde molti suoi compagni) però con idee, voglie, ambizioni e dubbi assai più complessi e problematici degli altri. Insomma, che sul futuro suo e del gruppo la stesse ancora pensando più o meno alla stessa semplice maniera dei soci suoi e cioè: forza con la Musica, quella con la M maiuscola, tutto il resto a seguire.
In tal caso non gli sarebbe mai venuto in mente di mollarli temporaneamente per un’ipotesi di carriera in ambito cinematografico presto abortita né, una volta tornato all’ovile, di chiedere/imporre d’essere l’unico paroliere del disco prossimo futuro, impostando ed adeguando lo stesso intorno ad un’unica, elucubrata vicenda sci-fi ambientata a New York, farcendolo di parole di testo a scapito delle porzioni strumentali (vitali per quell’ensemble dotato di un paio di eccellenti solisti, coadiuvati da una sezione ritmica sveglia e agile).
Quest’artificio del sottrarre l’inquietudine dell’artista Gabriel, il suo coraggio, le sue priorità del tempo, la sua presunzione al panorama dell’evoluzione/involuzione del suo gruppo sposta questo discorso chiaramente nel campo della fiction, della fantasia gratuita, del cazzeggio, dell’”autoerotismo progressivo“ si potrebbe dire, ma cos’altro raccontare a proposito di questo famoso album, epocale per non pochi, che non sia già stato detto e sottolineato? Essendo i fatti reali e la relativa, effettiva architettura dell’album già descritti minutamente in tantissime recensioni, biografie e interviste, proviamo dunque a giocare alterando il contesto di quel 1974 genesisiano, deformando la… genesi dell’opera per traguardarla da un inedito punto di vista.
Contesto:
Dunque: nella (ir)realtà che qui ci si diverte a tratteggiare si vuol tornare a quella fase di esistenza del gruppo, togliendole parecchia della sua crucialità, forzando l’inquadramento dei Genesis periodo 1974 quale quintetto progressivo più che mai coeso e carico, ogni musicista ben allineato e coperto verso l’obiettivo di continuare a migliorare la produzione musicale, e di riflesso la propria carriera, insistendo ed affinando ulteriormente ciò che si era a quel punto raggiunto, o almeno intuito. Non vi sono, in questa fiction, ragioni e risentimenti ad ostacolare il felice proseguimento della strada tracciata dai lavori precedenti, sempre più elaborati ed affascinanti, sempre più colmi di appaganti idee, struggenti melodie, trascinanti ritmi, sorprendenti dinamiche.
Come un sol uomo i cinque ci danno perciò dentro con composizioni, suoni, arrangiamenti e testi dopodiché, diligentemente accantonate le cose meno riuscite per privilegiare qualità ed efficacia, se ne escono con circa quarantacinque minuti imbottiti di fresche ed eccelse musiche, suddivise in dieci variegate e fascinose composizioni, articolate come segue a disegnare l’ipotetica scaletta del sesto album di carriera (e singolo!):
Lato A:
- “The Lamb Lies Down on Broadway” – 4’52”
- “Fly on a Windshield” – 2’47”
- “Broadway Melody of 1974” – 2’11”
- “In the Cage” – 8’15”
- “Back in N.Y.C.” – 5’49”
Lato B:
- “Carpet Crawlers” – 5’16”
- “Lilywhite Lilith” – 2’40”
- “Anyway” – 3’18”
- “The Lamia” – 6’57”
- “The Light Dies Down on Broadway” – 3’32”
Punti di forza e lacune:
I dieci brani elencati sono il meglio dell’album, purgati di tutti i riempitivi, delle intuizioni minori, quelle non ben sviluppate non credo per fretta ma piuttosto per frustrazione di qualcuno degli strumentisti; e poi degli accenni di musica concreta, degli schizzetti iper beatlesiani… di tutto ciò che è magari buono ma non memorabile.
Giudizio personale ovviamente… ciascuno vi potrà trovare omissioni, dimenticanze o sovrastime. L’opera effettiva è suddivisa in ventitré titoli per oltre novantaquattro minuti: in quest’ambito per certuni i siparietti vaudeville “Chukoo Cocoon” e “Counting Out Time” risulteranno irresistibili, mentre altri potrebbero avvertire come superflua a questo contesto la ripresa di “The Light Dies Down on Broadway” e magari optare su qualcosa estratto da “The Colony of Slippermen” (“The Raven”?) in sua vece. Eccetera eccetera: ma per i miei gusti il succo più dolce e sapido dell’Agnello è contenuto in queste dieci pagine.
Certo in questo modo il lavoro perde il filo conduttore e il fascino del Concept, la grandiosità dell’Opera Somma, però si ricompatta per il bene della Musica attraverso la messa in luce definitiva delle sue tante perle motiviche, dei suoi momenti autenticamente ispirati che in questa forma ricompattata si susseguono a stretta cadenza, qualificando il disco come il migliore in assoluto di carriera (del resto vi è parecchia gente che pensa comunque che lo sia, prolissità e riempitivi compresi).
Vertici dell’album:
Strutturato e compresso così, il disco è quasi tutto al vertice… ogni singolo episodio contenendo rimarchevoli e aggancianti pagine di peculiare talento genesisiano a cominciare dall’assolvente, brillante cadenza pianistica a mani sovrapposte e alternate, intente a staccare serratissimi bicordi, che inaugura l’incipit “The Lamb…”. Legioni di pianisti in erba si sono esercitati nel replicarla scoprendo che, come succede di norma per le invenzioni musicali di Tony Banks, le difficoltà tecniche sono presenti ma non altissime... niente di insormontabile, anche a livello dilettantesco ed addirittura inesistenti nel caso di una preparazione accademica, o comunque consistente.
Il genio di questo scorbutico, ma impagabile tastierista rock è diverso da quello degli Emerson e dei Wakeman: ciò che lo eleva ai massimi meriti è il talento compositivo e la capacità di creare forti suggestioni romantiche, in special modo attraverso pagine pianistiche ispirate come questa, replicate più in là con eguale se non maggiore fascino su “Anyway”, “The Lamia”, “Carpet Crawlers”, a loro volta intuizioni di struggente efficacia sullo strumento a coda.
Riguardo il Banks organista e sintetista, come noto “In the Cage” è al proposito un vero suo festival, farcito com’è di straripanti assoli di antidiluviano, impagabile sintetizzatore monofonico ARP Pro Soloist, in alternanza col serrato galoppo di vecchio e inarrivabile organo Hammond, nelle porzioni di accompagnamento alle lancinanti invocazioni di uno scatenato Gabriel.
Il quale canta benissimo, niente da dire: grande interprete, bellissimo timbro, grandissima varietà e lodevole convinzione. Cantava bene già a vent’anni sul primo album dei nostri, qui è eccezionale.
Il resto:
Nell’autentico “The Lamb…” l’assoluta qualità di parecchi suoi passaggi si ritrova parzialmente compromessa, primariamente dall’eccessivo fardello arrecato dalla verbosa, astrusa avventura di Rael, ma poi anche dal vistoso passo indietro qualitativo (rispetto al precedente “Selling England by the Pound”) in termini di tracking, suono e produzione, nonché infine dalla discreta latitanza di un chitarrista rivelantesi non del tutto a fuoco sul progetto.
I dischi dei Genesis non sono certo passati alla storia per le loro qualità di suono: sia “Nursery Crime” che “Foxtrot”, pur con tutti i loro meriti, avevano denunciato limitata pulizia e intelligibilità fra i vari strumenti. La chitarra di Hackett in special modo risultava sacrificata e asfittica a causa del suo suono inscatolato e poco risonante. Su “Selling…” magicamente tutto era andato a posto e Steve veniva fuori da padreterno col suo corredo di distorsori, pedali del volume, flanger, echi e riverberi a rendere i guizzi solistici del suo strumento nella maniera più sublime.
Qui è diverso: le sue idee, pur generalmente utilizzate a complemento a quelle degli altri, perdono quasi del tutto l’effetto di ciliegina sulla torta che avevano nell’occasione precedente: il suono non è più così limpido e rotondo, ma soprattutto vi sono delle carenze di ripresa… quello di "In the Cage" sarà pure il migliore assolo di chitarra dell’album ma a un certo punto si intacca pure e per un grossolano errore di produzione viene lasciato così com’è, poco professionalmente. D'altro canto il peraltro celebrato assolo finale su “The Lamia” non mi ha mai scaldato più di tanto: la chitarra è missata male (troppo alta), la sua cadenza è troppo meccanica, senza stile, e le melodie che crea danno suggestione più per la mirabile base armonica su cui sono appoggiata che per meriti propri.
Giudizio finale:
Ho le mie idee sui Genesis: il reale, doppio album “The Lamb…” lo inquadro come leggermente, ma sicuramente inferiore agli altri classici del periodo con Gabriel, ad esclusione di “Trespass”. E lo trovo inferiore anche ad “A Trick of the Tail”, per me uno dei migliori in assoluto, dotato di grande consistenza e varietà motivica.
In questa ipotetica versione “Best of” a singolo supporto, l’Agnello schizzerebbe come già accennato al primo posto del mio gradimento... e al diavolo la storia di Rael, tanto non è molto godibile e se la si trancia un poco qui e là l’intrattenimento ne guadagna con pochi danni per le liriche.
Ho anche le mie idee su Gabriel: enorme frontman e cantante, perfetto (o quasi… un po’ troppo verboso e invadente) coi Genesis, ma la sua carriera solista non mi intriga. Lo trovo un poco deprimente dal 1977 (inizio della sua discografia da solista) in poi, ma soprattutto con doti da melodista insufficienti a farmelo amare. E’ proprio un batterista mancato... gran parte del suo repertorio solista è costituito da groove che si allungano ciclicamente per parecchi minuti, senza che succeda molto, che vi sia uno spostamento deciso di chiave musicale, un inciso geniale, un ritornello arrapante. Grand’uomo, come no, ma mi faccio guidare dal gusto, com’è giusto che sia, e perciò da sempre lo ignoro cordialmente (confortato anche da mio figlio, che una sera che era venuto a trovarmi e dopo cena avevo messo su un dvd di Gabriel in concerto, all’aperto in una piazza francese, dopo un po’ ha esclamato lapidariamente: “Pa’, che palle!”).
Nulla di personale comunque: non mi interessano più di tanto neanche le carriere autoctone di Banks (unico mio struggente amore nei suoi confronti è per “A Curious Feeling”, fascinosissimo), di Hackett (boh, amo visceralmente solo “Spectral Mornings”, la canzone), Rutheford e Collins (per carità quest’ultimo… addirittura rovinoso per quanto negli anni ottanta ha pilotato il gusto internazionale verso il... cattivo gusto).
Mi scuso per queste ultime digressioni… erano sempre allo scopo di dire qualcosa di non scontato su questi cinque signori e questa loro famosa opera. Grazie dell’attenzione.
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