Che cosa ha fatto Matteo Locci tra il 1958, anno in cui nacque a Jerzu, nella arcaica, selvaggia, incontaminata Ogliastra, e il 2016, anno in cui il suo romanzo La Teologia del cinghiale ha fatto incetta di premi letterari?
È un mistero che il nostro Matteo Locci, in arte Gesuino Nemus, tiene bene a preservare. Dopotutto, conosce bene, lui, ogliastrino, ciò che il diavolo chiede in cambio della celebrità.
Infatti, sappiate che, nel 1969, anno in cui a Telęvras vennero trovati i tre cadaveri del nostro romanzo, un giornalista, esploratore del mondo per una rivista turistica, si stupiva e rifletteva in questo modo di fronte alla inesplorata bellezza di una caletta ogliastrina.
"Incredibile.
È piena estate e non c'è nessuno.
Siete gli unici. Gli unici.
…
Cosa scriverete? Dal vostro articolo dipende la vita o la morte di quel paradiso. Non si scherza, con le parole. Proprio come la suburra al Colosseo. Pollice in su: vita. In giù: morte.
…
Parlarne bene: morte. Parlarne male: vita."
Ne parlò bene e quell'angolo di paradiso, in cui la natura aveva fatto il suo lavoro per ere geologiche, divenne celebre. E quell'ogliastra morì.
Conosce bene il rischio della celebrità Matteo Locci, ma allo stesso tempo ora vuole e deve flirtarci. È il paradosso dell'uomo scrittore: sopravvivere come uomo e, nascondendosi, far vivere lo scrittore, oppure mostrandosi, diventare celebre, vivere come uomo, rischiando di uccidere lo scrittore.
Tuttavia, cosa farà il nostro in futuro è questione di lana caprina per noi, infatti il sopravvenuto successo potrà avere conseguenze solo negli anni e nelle opere a venire: l'argomento del giorno è invece La teologia del Cinghiale, opera prima, scritta in circa quarant'anni e in totale anonimato dal sopracitato Gesuino Nemus.
La teologia del Cinghiale è un romanzo ambizioso, polifonico e plurilinguistico, travestito da giallo. Insomma omicidi, indagini, colpevoli e moventi ci sono, ma passano sottotraccia, nascosti dalla storia di un popolo, dal percorso personale dei protagonisti e dalle amicizie ricche di pudori e segreti che intercorrono tra loro . Per non parlare degli investigatori, quelli hanno proprio incrociato o alzato, che dir si voglia, le braccia.
Nel luglio del 1969, anche a Telévras, piccolo paese collocato tra le montagne e il mare, i tremila abitanti del paese sono distratti dallo sbarco dell'uomo sulla Luna.
Negli stessi giorni, Antoni Esulògu, cantore matto, ma non scemo, del paese, intona questa cantilena:
"Apu bittu s'oppai 'e Putzu scorrovendu cussu fussu, a piccu, a panga e a trebùssu [Ho visto il compagno di Putzu, stava scavando quel fosso col piccone, la vanga e il forcone]".
Così, l'euforia per lo sbarco, viene eclissata in breve tempo da due morti: quella di Bachisio Trundinu e quella della moglie Elvira.
I protagonisti del libri sono Matteo Trundinu, figlio dei due coniugi trovati morti, Don Cossu, parroco del paese, e Gesuino Nėmus.
Matteo è un ragazzo dalle doti straordinarie, diaboliche si potrebbe dire, allevato con amore dal Don Cossu, parroco, gesuita, del paese. Sebbene "a un gesuita, non lo freghi", Matteo Trundinu è la memoria di Don Cossu (contro i malanni ricorda a memoria tutti i centotrentatrė diavoli o le medicine necessarie) ed è capace di scherzare con lui o di correggerlo scherzosamente di fronte ai suoi rari svarioni filosofici, linguistici o teologici.
Matteo ha un migliore amico che sembrerebbe il suo esatto opposto: Gesuino Nėmus (ovvero nessuno) è un bambino silenzioso e problematico. Di genitori sconosciuti, è vissuto fino agli otto anni in mezzo alla macchia e ai boschi della macchia mediterranea, e, guidato dai due sopra, cerca con difficoltà la sua strada per il mondo.
Ascoltando i racconti e inseguendo le vite di questi e degli altri personaggi venuti da "fuori", ci si può dimenticare per un attimo che per quarant'anni il nostro mistero rimane irrisolto.
Tuttavia ci si esalta nel seguire i giochi linguistici e i ragionamenti etimologici, come nel vedere la punteggiatura, insieme alla consecutio temporum, apparire, sparire, per poi diventare nuovamente impeccabile con l'avvicendarsi dei narratori.
Ci si diverte e si gongola nel conoscere una storia attraverso gli occhi di un bambino di dodici anni, di un amabile scrittore milanese e di un vecchio pazzo.
Con la teologia del cinghiale, Nèmus, inserisce con studiata calma nel microcosmo di Telėvras, molti incontri e esperienze di un sardo che è emigrato in "continente", è vissuto per sessant'anni nell'ombra sicura dell'anonimato e ha ritrovato la sua terra con occhi nuovi.
Potrei parlare del gioco di identità-alterità tra scrittore e narratore, come si potrebbe parlare di un narratore immaginato che diventa reale o di quant'altro, tuttavia preferisco finirla qui, ringraziare @sfascia carrozze e la bibliotecaria del mio non ridente paesino per avermene parlato e consigliarvi anch'io di fare un salto nel lato selvaggio della Sardegna: a Telévras.
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