Qualche anno prima Lucio si era ritrovato in casa un nastro rosa, e a Gianni spettava quantomeno un fiocco rosso di consolazione. Anche lui lo ebbe in dono dal gran Mogol, e per non fare la figura della giovane marmotta tornò a vestire i panni che più gli donavano.

Ovvero, quelli di maschio Alfa italiano 100% certificato: pantalone bianco a vita alta e mutanda tricolore sotto, ad esaltare e sostenere il pacco con sorpresa.

Un famelico predatore della giungla urbana cui è difficile sfuggire.

A differenza di Lucio il fiocco rosso non gli fu recapitato in casa, ma lo avvistò - su segnalazione del gran Mogol - sulla coda di una cavalla ancheggiante per la strada, una di quelle che fanno pensare ad un fienile ad una stalla (che, si noti e qualcuno l’avrà già notato, fa giustappunto rima con cavalla - spingendosi miglia oltre i romantici e più convenzionali cuore/amore e pelle/stelle).

Del resto, tutto si può dire sul gran Mogol tranne che non s’intenda di cavalli. Ci è andato pure da Milano a Roma, a cavallo. Ma non solo. Il cavallo ricorre (e corre) in tanta sua produzione. Quasi fosse un topos letterario.

A cominciare dal cavallo di Impressioni di settembre, certo. Che tende il collo, resta fermo, ma poi mi vede quando io (l’uomo in cerca di sé stesso) faccio un passo ed è già fuggito. Scomparendo nella nebbia prima il sole (tra la nebbia) filtri già.

Ma in generale il cavallo esprime quell’idea di libertà senza compromessi che, nella poetica del gran Mogol, è incarnata da assai variegata fauna. Impossibile non menzionare – al riguardo - il cervo a primavera e il gabbiano da scogliera, emblemi di quella vitalità ferina e primitiva che attende solo di sprigionarsi, nel catartico e fatale momento della rinascita.

Ma la cavalla di Fiocco rosso è, molto più essenzialmente, una cavalla da montare.

E da appiccicarle lo sguardo.

Infine da prendere a morsi per raddrizzarle quella curva tonda che infiamma di desiderio il maschio galoppante alle sue spalle, mentre un’atmosfera voluttuosa (scandita dal basso slappato ed incalzante) sembra avvolgere in sé predatore e preda.

Che voglia hai, che voglia ho (u-ho-u-ho-u-ho-u-ho).

Il linguaggio del corpo non mente, e lo stallone italiano è scaltro quanto basta per intuirne i segnali. In particolare, quell’ambigua e misteriosa fossa sopra il gluteo che è profonda come il piacere che mi dai.

E il piacere divampa, simbolicamente tramutato in suono dall’assolo di chitarra del leggendario Phil Palmer (lo stesso del nastro rosa, ma cosa ve lo dico a fare).

Prima che lo stallone si ritrovi tra il fieno (col fiatone) e realizzi che quella cavalla è stata pane (anzi biada) per i suoi denti.

Uff. Mi hai fatto stancare, possente come sei. Sembravi una cosa più facile.

Nonché un’ottima puntata al Totip: “Cavalla, quando corri tu non perdi mai”.

Che cavalla di razza che sei. Altro che il cavallo-collo proteso di ‘Impressioni di settembre’. Ma nemmeno il cervo a primavera vale un tuo zoccolo.

La canzone sancisce dunque una verità profonda e universale: mai dare nulla per scontato. In altri termini, non dire gatto se non ce l’hai nel sacco.

Nello specifico del contesto equino, non dire cavalla se non ce l’hai nella stalla.

Finalmente G.B. ha trovato la sua dimensione più vera. E soprattutto ha trovato il pimento dei testi di Mogol che imprimono il tocco di classe e gli permettono, come interprete, di rivelare ironie e tenerezze sottili

Quel che piace è l’abilità di G.B. (e Mogol) di travalicare le ipertrofie del canzonettismo domestico, e la capacità di trasmetterci, nello stesso tempo, il gusto della canzone pop

Finalmente buone nuove sul fronte della nostra musica leggera. È un peccato per la canzone italiana che l’incontro tra Bella e Mogol sia avvenuto solo adesso

(alcuni dei giudizi critici riportati sul retro di G.B.1, l’album di ‘Fiocco rosso’)

Qui la canzone (unica versione presente su YouTube - il 45 salta un po’ sul finale, il che rende ancor meglio l'effetto-cavallo che galoppa fra i solchi).

Carico i commenti...  con calma