Io ci sono stato nel deserto. Voi no.
Quella volta guidavo lungo la Interstate 10 che da Benson porta a Tucson (Arizona). Mi lasciavo alle spalle il New Mexico. E lo spazio. Quello raccontato da John Carpenter nel suo primo lungometraggio (ndr, Dark Star) negli anni settanta. A Benson avevo fatto surf tra le stelle in compagnia di quattro astronauti allucinati e di una irritante zucca aliena. A El Paso, nel Texas, mi ero preso una bella sbronza fino al mattino.
Dovevano essere le undici e trenta, forse le dodici. Il mio vecchio orologio automatico aveva smesso di segnare l'ora giusta da quando, qualche sera prima, a Juárez, avevo ballato guancia a guancia con una ballerina di Santa Bárbara. Era tempo di tornare con i piedi per terra.
Guidavo lungo la Interstate 10 a bordo della mia vecchia automobile, una Ford Escort degli anni settanta, una berlina di terza mano, grigia, quando mi sono ritrovato con il serbatoio a secco.
Ora, voi non siete mai rimasti senza benzina sulla Interstate 10. Io sì. Beh, credetemi, quando rimanete a secco sulla Interstate 10 e il sole picchia tanto forte sulle vostre teste che vi sembra di essere all'inferno, non resta altro da fare che buttare giù l'ultimo sorso di whisky rimasto per rinfrescarsi la gola e mettersi in cammino. Prima di diventare cibo per gli avvoltoi e sabbia per il deserto.
Comunque, che ci crediate o no, è stata quella la volta che ho conosciuto Howe Gelb.
Howe se ne stava seduto su di una sedia davanti ad una vecchia casa in legno e con le pareti dipinte di azzurro. All'ombra di una vecchia veranda in legno che, per la verità, faceva acqua da tutte le parti. Ma tanto in Arizona non piove mai. Strimpellava lento qualcuna delle sue canzoni. E qualche altro vecchio classico polveroso del suo repertorio. Un centinaio di formiche rosse banchettavano al sole dei resti della carcassa di una vecchia lucertola che, fino a qualche ora prima, immaginavo, se ne stava tranquilla ad abbronzarsi lungo le pareti decrepite della casa.
Di tanto in tanto, Howe metteva da parte la chitarra e buttava giù un sorso di tequila. Quella robaccia, che pure avrebbe risvegliato anche il più morto tra i rettili dell'intera Arizona, da quelle parti è ossigeno.
E' stato allora che Howe mi ha visto. Mi ha sorriso e mi ha invitato a unirmi a lui. Mi sono sciacquato la bocca con la tequila e, con il sole negli occhi, abbiamo parlato di automobili. E del prezzo del petrolio. Ci siamo detti che in America tutto sta andando in puttane. Poi, se è vero che mi chiamo Carlo Cimmino, abbiamo scritto "Napoli".
Non ho più incontrato Howe Gelb. Qualche anno fa ha lasciato l'Arizona (beh, ogni tanto ci mette ancora piede) e, orfano di Joey Burns e John Convertino, oramai impegnati a tempo pieno con i Calexico, si è portato dietro un pezzo di deserto in Danimarca. Ha rifondato, in verità per l'ennesima volta, i Giant Sand e nel duemilaequattro, assistito dalla impeccabile produzione di John Parish (con cui aveva già lavorato in occasione dell'ottimo "Chore of Enchantment"), ha registrato, e pubblicato, "Is All Over the Map".
Quella volta Howe mi ha detto che il deserto non è solo roba per gli americani. In "Is All Over the Map", tra guestS più o meno importanti (John Parish, Scout Niblett e il grande Vic Chesnutt), qualche blues elettrico ad alta intensità, ballate degne dei migliori songwriterS statunitensi (su tutte, la bellissima Hood) e vecchi pianoforti impolverati (Rag, Drab, Play), ha modo di rispolverare "Anarchy in the Uk" dei Pistols e scrivere una canzone in francese (Les Forcats Innocents). Soprattutto, la bellissima "Classico" (coverizzata poi egregiamente dalla nostra Nada Malanima in "Tutto l'amore che mi manca" - prodotto da John Parish, of course) e la già citata "Napoli" sono due tra le migliori canzoni mai scritte da Howe Gelb e la sua band.
In quanto a me. Non ci sono più stato nel deserto. Ma ora me lo porto sempre dietro.
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