Mamma mia che disco...
Vibrante di vibrazioni sottili, di sensazioni sottopelle.
Come riflessi catturati per un attimo e restituiti da un vagare semiconscio.
E pallidi resti di brace nel buio a dire l'inverno, quello del nostro scontento, certo, ma anche il tepore di un suono che riscalda piano...
Come fosse restato un solo fiammifero che braci e colpi di vento non riescono a spegnere.
Deve essere un piano doppiato da un organo elettrico, l'andamento è soul jazz. Qualcosa di luminescente, una specie di raccoglimento quasi gospel. Anche se poi, a ben guardare, siamo all'incrocio di tutte le musiche nere.
Poi, su tutto, una voce aspra...pastosa...dura...forte...
Una specie di sacra autorevolezza che viene da lontano. Da un vecchio pianoforte, per esempio, regalo della nonna quando Gil era un bambino.
Fantastica quella nonna, una di quelle che, come direbbe il vecchio Marco, ti cuciono addosso “l'abito della poesia umana”...
Si si, viene da un vecchio pianoforte e viene dai sessanta. Martin Luther King, le pantere nere, Mohammed Ali, il primo fiammeggiante rap dei Last poets.
E viene, ovviamente, anche da molto, molto prima. Per capirlo basta ascoltare la traccia due...
“Rivers of my fathers carry me home”
Un lungo inizio di puro jazz , Miles fate conto, poi ancora il gospel e, alla fine, una specie di attimo trascendentale...
Si si, un attimo trascendentale...
Quando, tra preghiera e mancanza, quel “riportatemi a casa” vien detto all'infinito, poi un gorgo ribollente di piano e, poco prima che tutto si acquieti, una parola sussurrata a mezza voce. E quella parola è Africa. Del resto a dire le cose non ci vuole che un attimo.
E comunque mica è solo traccia due, è tutto il disco...
Intimo, confidenziale, malinconico, raccolto, con rari e magnifici momenti di groove tenuissimo e come ad acquarello, i flauti del prode Brian che sanno di primavera...
Passando da momenti quasi ancestrali, il gospel che dicevamo, a un calore dolcissimo e quasi familiare, dal talking blues più battagliero all'essenzialità più commovente...
Senza contare quella faccia, bellissima allora, ma bellissima anche fino a ieri, come se l'impastare la creta della realtà e dei sogni, quella cosa chiamata poesia, non fosse servito alla fine che a modellare un tragico volto da maschera antica.
Riguardo alle cronache, alle dipendenze che denunciavi e nelle quali sei cascato pure tu, fa niente Gil.
Esiste forse qualcuno all'altezza delle proprie parole?
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