Il primo disco dei Gin Blossoms, come avvenne per tante bands soprattutto negli anni novanta, è un lavoro inizialmente passato del tutto inosservato e riproposto in un secondo momento dalla major di turno. Autoprodotto e sottoprodotto, pressoché circolante nei soli dintorni di Tempe, Arizona, è la conferma delle intuizioni pervenute all'ascolto di "New Miserable Experience". Qui siamo tre anni prima, la line up è sempre quella ma è il marchio di fabbrica a non esserci ancora. Il ché rende questo disco meno smaccatamente preconfezionato per l'heavy rotation, ma anche di qualità (non solo sonora) lievemente inferiore.

Se "Lost Horizons", "Found Out About You" e "Hey Jealousy" viaggiano al doppio della velocità rispetto alle loro versioni in "New Miserable Experience" (le ultime due saranno singoli di buon successo), la melodia non marcata di "Found Out About You" qui perde moltissimo, sacrificata sull'altare del ritmo, e lo stile esecutivo di tutti e tre i brani è decisamente inferiore: pagano dazzi salati ai Byrds in quegli infiniti arpeggi e jingle jangle vari.

Se in "New Miserable Experience" si sentivano assolie  sfuriate, qui le parti di chitarra si moltiplicano, gli assoli si duplicano, per non parlare di questo continuo scampanare di chitarre! Se c'erano delle parti di batteria che non erano proprie del genere musicale, qui è tutta una rullata. Il basso, poi, viaggia al doppio per volume, numero di note e velocità d'esecuzione.

I solos, poi, in brani non certo imprevedibili come "Something Wrong", "Idiot Summer" o "Slave Dealers Daughter", è indiscutibilmente la parte migliore della canzone.

La mancanza di produzione vede "Cajun Song" perdere le fisarmoniche ed acquisire la solita Rickenbecker, trasformando la sagra in una anonima e sciatta serata per ubriaconi dentro a un locale country western. Bene quando si accelera un altro pochetto in più del solito ("Keli Richards"); meno bene quando si rallenta più del solito per scartare certe caramelle root, come in "Slave Dealers Daughter", sebbene arrivi il salvifico assolo di sempre.

La forma, in tutti i brani, è più o meno la stessa: le strofe quasi sempre più orecchiabili dei ritornelli, le liriche che si esauriscono in fretta, gli spazi strumentali ampi, le sonorità tradizionali che stanni assieme ai gusti alternativi: una versione punk dei Byrds, al cotempo fuori da canoni intellettual-collegiali di Athens, e piuttosto dntro quelli operai e stradaioli di Minneapolis.

La produzione in pieno stile major dell'album successivo ha aumentasto la fruibilità dei brani facendone però perdere parecchio dello smalto originario; ha depotenziato le sonorità di quello che sarebbe stato un root-rock da Loolapalooza ma ci ha liberati dall'incubo dell'arpeggio e dello scampanellio chitarristico: terminato il primo ascolto di "Dusted", mi hanno chiamato da sinistra e mi sono girato verso destra.

Se ne sconsiglia, pertanto, l'ascolto durante la guida o sotto le elezioni.

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