Da quattro giorni nevica; per fortuna con qualche pausa. Da almeno una decina di anni non si vedeva così tanta neve.
Cielo grigio, bigio; tutto è bianco, freddo, impalpabile. Anche i rumori si attenuano all'esterno di casa; temperatura sempre prossima alla zero, con rischio di gelate notturne. Facile per me associare questa atmosfera invernale con l'EP dei Godflesh, dal titolo che si adatta a quanto appena scritto.
Justin Broadrick lo registra nelle medesime sessioni dell'album Pure uscito nel 1992.
Siamo nell'autunno del 1991 quando Cold World viene pubblicato.
C'è una chitarra in più, che viene affidata a Robert Hampson, leader dei sulfurei Loop.
Quattro soli brani; anzi in realtà sono due più due remix di "Nihil".
"Cold World" ha un inizio spettrale, sinfonico; dopo pochi secondi irrompono le chitarre spesse, traumatiche, violentatrici. La voce ha un contorno lieve, soffuso, pulito. Asettici e disturbanti, ma con un filo di speranza in più rispetto ai tremendi industriali esordi. Un'anticipazione di quello che anni dopo saranno i Jesu, altro epocale progetto dell'instancabile Justin.
La relativa quiete si interrompe con "Nihil" dove i Godflesh si ricordano di essere i maestri dell'Industrial Metal. Batteria che martella ai fianchi, chitarre dissonanti dal suono oltraggioso, oscuro; un basso cupo, onnipresente. Che spezza e dilata. Rumori di fondo in aggiunta; sei minuti deprimenti e desolanti. Immagini di lande ghiacciate irrompono nella mia mente nell'ascolto; chiaro-scuri inespressivi, inquietanti.
I due remix del medesimo brano sono stracolmi di elettronica; ripetizione mantrica di due sole parole pronunciate da Justin. L'angoscia si insinua in ogni secondo, ben oltre la soglia di attenzione. Minuti ipnotici, cerebrali; che paralizzano...Immani violentatori...
Torno a spalare; ormai è ora. Non posso aspettare oltre...
Ad Maiora.
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