L'afrore è intenso fin dai primi minuti. Il sole infierisce spietato sulla massa di metallari che alle 19 sfonda i cancelli e inizia ad assieparsi sotto il palco. Un popolo di freak, ognuno con la sua maglia di cotone spesso che riporta nomi di gruppi più o meno affini al contesto: Nile, Opeth, Mastodon, Metallica. Ognuno porta un pezzo del suo epos personale sulle spalle e lo sfoggia orgoglioso. Un piccolo esercito di barbari, energumeni dalle barbe vichinghe, ragazzotti panciuti e brufolosi, valchirie tatuate, pin up dal piglio dark con rossetti fiammeggianti e anfibi che fermentano terrificanti colonie batteriche nei 35 gradi di Sesto San Giovanni.

Davanti a me, proprio in prima fila, adagiata alla transenna una maliarda anziana, la pelle bronzea scavata dagli anni si aggrappa al viso magro, raggiante, dove sono incastonati due occhi di opale, i capelli biancastri come tentacoli arruffati, fissati qua e là da alcune mollette. A fianco, una ragazzina d'ebano grida come una strega bantu. Poco dietro, una sacerdotessa d'avorio osserva algida il dipanarsi della musica. Intorno, una tribù di selvaggi.

A ogni concerto la sua varietà umana. Qui non siamo propriamente su coordinate da metal vecchia scuola, eppure il clima è quello: disinibito, barbarico, profondamente carnale nel compiere il rito che si consuma in fiotti di sudore, olezzi, spinte e controspinte, una guerra di corpi che si intrecciano e tentano di resistere. Ci sono i veterani che pogano, bestioni dalle barbe mitologiche, che si gettano sulla folla, bestemmiano e si dimenano; lì a fianco, ragazzini magrolini e quasi compunti, che si preoccupano di non gettare per terra la bottiglietta di plastica, oppure insospettabili donzelle in reggiseno o poco più, che vogliono mischiarsi al rito demoniaco, come per svezzarsi. Chiedono di essere sollevate per fare il loro crowd surfing e uscire gonfie di ebbrezza da sotto il palco.

La massa sgangherata di esseri umani si agita, si scuote come per impazzimento, in tornelli che sembrano feste tribali, cade e si rialza, si comprime fino a sentire i polmoni schiacciarsi. Intanto le magliette sono in stato di putrefazione per il sudore, le braccia e i corpi si strusciano unti dei propri stessi umori maleodoranti. Le facce intorno, in qualche modo, portano un segno di dolore, più o meno consapevole, una sofferenza da espiare, da spurgare come un veleno che può liberarsi solo attraverso questo baccanale che dispensa piaceri estatici e sofferenza, una marcescenza collettiva, la fatica autoinflitta per rinascere purificati.

Prima dei Gojira suonano gli Employed To Serve (vichinghi che sferzano l'aere con il loro muro di chitarre) e gli Alien Weaponry (maori neozelandesi che sparigliano le carte con spunti di batteria sempre un po' controtempo). È un bel sentire, la folla è già al delirio, ci si accalca non poco e qualcuno inizia a camminare sulla folla. Quando alle 21 entrano i Gojira però la situazione degenera. Sarà che Mario Duplantier picchia sulla doppia cassa come una mitraglia, saranno le grida di suo fratello Joe, ma la musica ben presto diventa semplice e quasi indistinta colonna sonora del circo diabolico che si scatena lì in mezzo alla pista. I corpi volano continuamente, braccia e gambe si perdono nel marasma, qualcuno sta male, altri begano. C'è un girone dell'inferno che getta grida oscene a pochi metri dalle transenne. La putrefazione è completa.

I Gojira suonano tanti pezzi dagli ultimi due dischi, non i più cattivi della loro carriera. Eppure l'afflato live e il cannoneggiare di Mario rinvigoriscono anche i brani che su disco non avevano convinto del tutto. Ma le chicche arrivano dai lavori precedenti: Flying Whales e L'Enfant Sauvage su tutte. A livello ritmico raramente ho sentito di meglio, è un massacro, ma se devo dirla tutta questo concerto conferma alcuni limiti della formazione: una scarsa propensione ai virtuosismi di chitarra, strutture a volte ripetitive e melodie che non brillano per varietà. Ma non importa, è stato bello sguazzare nel fango incandescente con Malacoda, Graffiacane e Barbariccia.

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