Una lunga strada, che attraversa tutta l'America: lungo è anche il tratto che da Las Vegas conduce a St. George nello Utah. Le condizioni del tempo sembrano divenire proibitive, ci sono nubi scure, scurissime all'orizzonte. Ma i ventidue centauri non si perdono d'animo, il giro d'America in Harley Davidson non può fermarli. Il mattino è freddo, il fiato diventa una nuvola di umida condensa. Due uomini stanno in piedi vicino al proprio destriero metallico. La loro lunga amicizia ha creato una tale complicità da non necessitare di vane parole.
Marc Lynn e Steve Lee si tirano una pacca amichevole sulla spalla, sorridono, mettono in moto e partono. Insieme ripercorrono col pensiero la loro vita. Ripensano a quando hanno formato i Krak, che poi diventeranno i Gotthard. Ripensano ad una carriera sfolgorante, le cui fatiche hanno condotto alla soddisfazione del disco di platino di "Need To Believe" del 2009.
Molto spesso, anche chi scrive codesto umile tributo sotto forma di recensione, ripensa a quel tragico mattino... ascoltando le note di "G.", il terzo album inciso dalla band. È sempre stato uno di quegli album travolgenti e mozzafiato, anche se invero non propone nulla di straordinariamente innovativo. Hardrock di fattura eccelsa. Le novità e il stile molto più personale verranno dopo, quando i nostri troveranno la loro via (pensiamo all'ottimo "Lipservice", per esempio).
Qui abbiamo ancora i Gotthard sotto la guida del guru dei Krokus, Chris von Rohr, co-compositore e produttore. Abbiamo qui pezzi che spaccano di brutto: la priestiana Fist In Your Face, la tenera ballata One Life One Soul, gli ottimi hard rock di Movin' On e Make My Day, le cover sempre reinterpretate ottimamente come Mighty Quinn di Bob Dylan (già ai tempi coverizzata da Manfred Mann), He Ain't Heavy, He's My Borther degli Hollies e nella versione giapponese di "G." Immigrant Song dei Led Zeppelin. Qui erano ancora i grezzi e vecchi Gotthard, quelli che si ispiravano fortemente a Coverdale e soci.
Steve quella mattina è felice, come non lo è mai stato in vita sua, poiché si realizza il sogno di una vita, ossia il tanto sognato giro degli States in moto: questo è ciò che dirà sua moglie Brigitte dopo. Il dopo... la pioggia incalza, il vento tira di brutto, è freddo, porta un'acqua gelida e battente: uno dei motori dei bikers ha problemi di accensione. Ne approfitta tutto il gruppo per fermarsi, magari coprirsi, mettere un impermeabile e ripartire liberi e selvaggi, cavalcando la moto sul lungo serpentone d'asfalto; quello stesso asfalto che si bagna e diviene tremendamente scivoloso, sul quale arriva un Tir a manetta, sbanda, centra in pieno tutto il gruppo, che miracolosamente si salva. Solo un biker rimane a terra. A nulla serve la rianimazione. Steve Lee muore in quel 5 ottobre maledetto del 2010. Il fato a volte sembra proprio essere beffardo: andarsene così a 47 anni realizzando il proprio sogno.
Questa modesta pagina è dedicata a te Steve: riposa in pace, addio.
Carico i commenti... con calma