Molto si è scritto e detto nell’ultimo anno e mezzo da quando i Greta Van Fleet, gruppo Rock del Michigan (stato degli Stati Uniti non così irrilevante per quanto concerne la storia, per esempio, del Blues) capitanato dai fratelli Kiszka e dal batterista Daniel Wagner, sono ufficialmente sbarcati nel mercato discografico Rock, suscitando anche dibattiti di un certo interesse riguardo la forte influenza che hanno avuto i leggendari Led Zeppelin sulla loro musica e sul fatto che possano essere considerati a tutti gli effetti una semplice, seppur ottima, “cover band” di quest’ultimi.
Ebbene, la risposta che potrò darvi a tale quesito sarà la seguente: sì, è assolutamente inconfutabile che la loro musica sia stata massicciamente influenzata dai mitologici lavori della “premiata ditta” Jimmy & Robert (Page e Plant, ovviamente), ma al tempo stesso questi talentuosi ragazzi del Michigan sono riusciti con il loro modo “passionale” di fare Musica con la maiuscola a render di nuovo attuale e, soprattutto, fresco di contenuti un sound Hard Rock, venato di Blues e Folk in alcuni tratti, che dopo i meravigliosi fasti dei Settanta (e, in parte, degli Ottanta) sembrava drammaticamente essersi perso nella notte dei tempi.
Questo album che porta il titolo profetico di Anthem Of The Peaceful Army (traducibile in Inno del pacifico esercito) non è, dunque, nient’altro che una perfetta testimonianza di quanto scritto poc’anzi ed è anche un album che, sebbene non abbia nulla di così nuovo o rivoluzionario, vale davvero la pena di approfondire dall’inizio alla fine. Si comincia con la suggestiva Age Of Man, ballata di quasi 6 mesi nella quale i fratelli Kiszka sembrano pescare a piene di mani nella sperimentazione presente nella seconda facciata dello storico ‘Physical Graffiti’ degli Zeppelin: da notare, infatti, l’uso di sintetizzatori ed organo che dalle prime note rimandano quasi immediatamente alla notturna In The Light, presente come primo pezzo del succitato album. Con The Cold Wind, invece, ci si tuffa nell’universo tutto riff e assoli veloci ma incisivi di ‘Led Zeppelin II’ con in primo piano la voce di Joshua Kiszka dai tratti incredibilmente “plantiani” di cui qui ne abbiamo certamente un primo, tangibile saggio. Sulla stessa scia si ha When The Curtain Falls, arricchito da un testo incisivo che attacca, anche non troppo velatamente, il patinato mondo hollywoodiano (“Fotocamera, luci e azione / e parole che conosci così bene / Sei alla moda o fuori moda / in un’Hollywood d’inferno”). La deliziosa Watching Over si fa molto ben gustare per le abilità melodiche e tecniche alla sei corde di Jacob Kiszka, alle prese con una serie di riff e di assoli, riprodotti con gli effetti di un bellissimo sitar elettrico di beatlesiana memoria. Lover, Leaver (Taker, Believer) è, invece, il pezzo più creativo e pulsante dell’album con un Jacob ispiratissimo e scatenatissimo per i quasi 6 minuti della canzone e una sezione ritmica che vede Samuel Kiszka e Daniel Wagner decisamente sugli scudi. Con la dolcissima You’re The One passiamo, invece, alle sonorità semi-acustiche di ‘Led Zeppelin I’, dal momento che il pezzo ha notevoli somiglianze con Your Time Is Gonna Come del primo capolavoro zeppeliano, ma a differenza di quest’ultimo, qui abbiamo un inedito assolo di Hammond da parte di Samuel che dimostra anche lui di esser dotato di buonissimi numeri, un po’ come lo era John Paul Jones, guarda il caso, anche lui di professione bassista/polistrumentista. The New Day ricalca, invece, le orme di ‘Led Zeppelin III’ con una progressione tra un simil-Folk acustico e l’elettrica che porta a risultati decisamente buoni. Per contro, The Mountain Of The Sun ha una bella struttura Blues con un bellissimo riff iniziale, reso con la slide, che ricorda da vicino alcuni pezzi del Blues Elettrico del tardo Cinquanta (cui si ispirò anche l’eccellente Page, per giunta) e una sezione ritmica anche qui impeccabile. Ma il pezzo più ambizioso di tutti che cresce con gli ascolti è sicuramente Brave New World che parte piano per poi proseguire in un irresistibile crescendo che porta a un assolo finale di Jacob che in questo caso, per l’uso creativo dei distorsori, assume persino suggestioni hendrixiane (Jacob, tra l’altro, ha molto probabilmente ereditato dal leggendario Jimi la sua usanza di suonare la chitarra dietro la schiena, per esempio!). Anthem chiude, infine, con il suo incedere acustico e decisamente rilassato, proprio “à la Led Zeppelin” un lavoro che, pertanto, potremmo definire nel complesso molto buono e che conferma non soltanto l’ottimo esordio di In The Fires dello scorso anno, ma soprattutto mette in luce le qualità di un gruppo che, se dimostrerà con il passar del tempo e, soprattutto, dei prossimi album di mantenere inalterata la propria già forte identità musicale, implementandola con una varietà di stile sempre più distintiva, farà certamente parlare di sé molto in positivo, senza sdoganare paragoni con Led Zeppelin e soci che tanto hanno dato al Rock, ma che nel caso dei GVF devono rappresentare nient’altro che un ottimo punto di partenza verso i prossimi (speriamo!) successi futuri.
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