Quando si parla di un disco o una canzone si cerca di descrivere con parole appropriate il suo valore artistico, tuttavia c’è sempre qualcosa di misterioso relativo alla musica, un elemento inafferrabile che nessuna frase sembra essere in grado di esprimere compiutamente.

L’aspetto appena evidenziato si addice a quelle opere che, pur collocabili in un determinato genere, ne riscrivono le coordinate o ne propongono una versione così personale da disorientare anche l’ascoltatore più attento. Tra di esse rientra senza dubbio Mysteries of Funk, esordio del DJ e producer Raymond Bingham, meglio noto come Grooverider.

Insieme al socio Fitzroy Heslop, in arte Fabio, Bingham viene riconosciuto unanimemente come uno dei pionieri della drum and bass, grazie alla sua attività musicale e radiofonica svoltasi nel Regno Unito (soprattutto come DJ resident del club londinese Heaven) tra la fine degli anni Ottanta e il decennio successivo.

Oltre ad alcuni remix realizzati per artisti del calibro di Pressure Drop e Roni Size, Grooverider ci regala un album oscuro ed enigmatico, Mysteries of Funk appunto, prodotto in collaborazione con Optical (a proposito, conoscete Wormhole di Ed Rush & Optical? No? Andate subito a recuperarlo) e pubblicato nel settembre del 1998.

E’ senza dubbio difficile descrivere l’approccio compositivo di Grooverider, che nelle sue produzioni accosta in maniera del tutto personale elementi elettronici e strumentazione live, con risultati a tratti spiazzanti. Le tredici tracce si distinguono dunque per l’atmosfera criptica e cerebrale, in cui la tradizionale alternanza tra “broken beat” e ritmiche regolari è accompagnata da dissonanze, bassi spigolosi e groove stranissimi, conditi da echi di jazz e psichedelia e suggestive parti vocali (da questo punto di vista Mysteries of Funk può essere paragonato a un disco come Coded Language di Krust, sebbene meno ostico e decisamente più accessibile).

L’introduttiva “Cybernetic Jazz” mette subito le cose in chiaro: gran giro di basso, batterie pesanti e suoni che ricordano i viaggi interstellari di Sun Ra, tra riverberi, interludi ambient e synth che ci proiettano direttamente su Saturno. Anche il singolo “Rainbows of Colour” ripropone pressoché gli stessi ingredienti, ammorbidendo però il sound con l’aggiunta di trombe e chitarre funk (bello anche il cantato straniante di Roya Arab). Un altro brano che colpisce nel segno è “On the Double”, costruito su alcuni sample “rubati” a Isaac Hayes e perfettamente armonizzati tra i pattern ritmici (personalmente ci trovo alcune somiglianze con “Brown Paper Bag” di Roni Size: non un gran problema).

In Time & Space” Bingham si allontana dalla drum and bass per sconfinare in territori nu-jazz (forse un po’ datati), tra percussioni, voci femminili e strumenti a fiato, mentre “Where’s Jack the Ripper?” è una delle tracce in cui più si avverte la presenza del compare Optical, una dark and bass dura e minacciosa che non si risparmia improvvise aperture melodiche (aspetti riscontrabili anche nell’eccellente “560’”, piena di rullanti spazzolati).

Quando la freschezza viene meno il livello scende, ma non di molto: C Funk” aggiunge alla ricetta uno scat che evidenzia l’animo black di Grooverider, laddove la terza parte di “Imagination” diminuisce i bpm e ci immerge in un hip-hop ipnotico, con un loop di pianoforte che ricorda la colonna sonora di un film horror.

Una menzione speciale la merita “Rivers of Congo”, dove Bingham riesce a dosare in maniera equilibrata fiati ed elettronica e ci accompagna per mano attraverso un’umida foresta pluviale, per poi condurci nella remota “Starbase 23” dopo aver superato galassie e costellazioni sconosciute.

Al termine del viaggio ci sentiamo piacevolmente turbati, anche se l’incantesimo rischia di spezzarsi più di una volta a causa della distanza temporale che separa dall’uscita del disco. Poco male, perché Mysteries of Funk mantiene quasi intatto il suo fascino e rappresenta ancora oggi una preziosa testimonianza del periodo d’oro della drum and bass (e per chi avesse la fortuna di trovarla esiste anche una deluxe edition con tracce bonus, remix e altro materiale interessante).

Siamo insomma di fronte a un lavoro solido, che pur non rinunciando alle sue radici (la black music degli anni Sessanta e Settanta) le inserisce in un contesto algido, talvolta glaciale, comunque privo di quella frenesia e quel calore tipici della cultura afroamericana. Alimentando un mistero che, quasi venticinque anni dopo, non può lasciare del tutto indifferenti.

Voto del DeRecensore: 4,5

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