La buona stella di un artista, parafrasando Seneca, prende a brillare quando il talento sulla propria via interseca l'opportunità, il rinomato treno della vita che passa per ognuno di noi, ma non fischia e non si ferma. Occorre essere abili nel riconoscerlo e balzare su al volo, per non rimanere per sempre a terra.
Le affollate banchine della stazione pullulano di gente che si affanna trascinandosi dietro robuste valigie, mentre altri guardano impazienti il grande orologio che campeggia sul binario. In tutto questo trambusto, per vari motivi, qualcuno rimane a terra. Grover li osserva dal finestrino mentre il treno rompe l'inerzia.
A otto anni i miei genitori mi hanno regalato un trenino elettrico della Lima. Tre giorni dopo ho pensato bene di analizzare le conseguenze di un deragliamento, proiettando i binari verso il vuoto oltre il tavolo della cucina. Planando ha affettato con sicurezza l'aria, fino ad arrestare la propria corsa nell'impatto fatale. A Grover Jr. a otto anni, invece, gli è stato regalato un sassofono. Così, per dire.
Talento e opportunità, opportunità e talento. Come li si voglia vedere o leggere sono entrambi amici della sorte, che si presenta al binario di Grover jr. nel giorno del compimento del suo ottavo anno, negli abiti e nelle mani del padre. Sempre così, per dire. Ma anche no, perchè c'è sempre un avvenimento nella vita degli artisti che muta l'ordinarietà, la pietra angolare della svolta, la scintilla che scatena la fiamma. Comunque sia, un destino scritto e letto sulle pareti di casa. La mamma canta nei cori della chiesa di quartiere, il fratello è organista presso la stessa, il papà colleziona dischi e ha la passione per il sassofono e il fratello minore suona la batteria. Una casa dove la musica te la ritrovi tra i denti a fine pasto, negli sbadigli, nello sgabuzzino rovistando tra gli utensili. E poi ci sono loro, i suoi illustri amici Benny Goodman e Fletcher Henderson che aleggiano leggeri nelle sue stanze, irradiati dalla tromba d'ottone. Ovvio che in un contesto simile non ti ritrovi a far musica per sbaglio.
"Mister Magic" vede la luce il 7 Febbraio del 1975, dopo quattro album e qualche cover tributo dedicata ai suoi idoli adolescenziali ed è l'album della maturità. Lo è perchè è il più bello, per stessa ammissione di Washington. Lo è perchè un Bob James in forma smagliante crea una gamma di arrangiamenti annoverati tra i più brillanti e riusciti della sua vita. Lo è perchè l'evoluzione stilistica di Grover, da quell'ottavo compleanno si è definitivamente completata e consacrata. Lo è perchè basterebbe ascoltare il disco per capirlo.
Dicevo, è il 1975 e Grover Washington è definitivamente consacrato e spedito a nutrire la lista dei capostipiti dello Smooth Jazz.
Lo smooth è stato accolto, specie negli esordi, molto ferocemente dagli amanti del jazz, una diatriba che si è protratta per lungo tempo nei salotti mondani, sia per la miopia dei puristi e talebani degli standard jazz, e sia per la moltitudine di prodotti scadenti, per un dilettantismo dopolavoristico di alcuni artisti che hanno macchiato di imbarazzante superficialità questo interessante filone, così che lo smooth è oggi considerato dal gotha del genere un figlio minore ma pregievole, un barbone con i gemelli ai polsi, la Mercedes parcheggiata nell'autosalone Ferrari che non sfigura.
"Mister Magic" nella fattispecie, nonostante il titolo affibiato a Washington, annovera nei propri solchi poca rappresentanza dello smooth, fortemente votato e proiettato verso un interessante sottobosco jazz-funk tanto caro a molti suoi colleghi contemporanei quali Idris Muhammad, Herbie Hancock o Stanley Clarke, per dirne alcuni. Lo si capisce dall'incipit di "Earth Tones", dai suoi dodici minuti e mezzo impregnati da una fitta atmosfera tropicale, dove volatili urlanti fraseggiano col sax di Grover che si inerpica su scale impossibili, così come nell'omonimo "Mister Magic" , funkeggiante mantra che dilaga in una fluviale improvvisazione tra nodosi assoli di Grover e la corde di Gale. "Passion Flower" , il pezzo più orchestrale dell'album nonchè il più zuccheroso, si spinge avanti sonnecchiante, dipingendo campi di camomilla. Con una pistola puntata alla nuca, è il pezzo che butterei giù dalla torre, ma con mille rimpianti. Ma c'è ancora tempo, tempo di sussulti, spiritualità, tempo per un misticismo ermetico che sorprendentemente si rivela, perdendo il proprio mimetismo alle porte dell'anima, nelle strette traiettorie e nell’alternanza di saliscendi tonali che compongono la conclusiva "Black Frost". E Washington ancora lì, perso in una delle mille scatole cinesi foggiate dal suo sassofono. Lì, incastonato nel tempo, a comporre una scala infinita.
Grover il suo treno l'ha preso in tempo ma è sceso troppo presto e purtroppo per sempre. Mi piace pensarlo bimbetto di otto anni, col naso spiaccicato contro il finestrino, che scopre di aver abbandonato il sassofono sulla banchina della stazione.
Qualcuno lo nota e glielo porge dal finestrino dicendogli grazie.
"Dovrei essere io a ringraziarti"
"No, grazie davvero".
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