Può sembrare un cartone animato senza pretese. Una cosa per bambini. In effetti la prima volta che lo vidi pensai a un lavoro semplice, una piccola fuga fanciullesca. È l'esatto contrario.

Qui tutta la ricchezza drammatica e fantasticheggiante del Maestro si dà, ma in sottrazione, per suggerimenti sottili e difficili agli occhi dello spettatore che non lo conosce bene. Solo dopo aver visto tutti i suoi film, Mononoke, Si alza il vento e così via, si può tornare a Totoro e comprenderne la grande stratificazione. Quell'orsacchiotto sonnacchioso che fa un po' paura e un po' tenerezza, che gigioneggia e salva senza battere ciglio. È lo spirito guida di Miyazaki, il suo “dio bestia” ante litteram.

Una favola minuta per bimbi, una storia gigantesca sul senso della vita, sulla natura e sulle divinità che la popolano. Sulla forza dei bambini che vi si affidano senza farsi troppe domande. Ha il ritmo e le cadenze di un piccolo incubo sudato di mezza estate. Un incubo che forse è più un sogno in mezzo ai prati, tra giochi con papà e scorribande nei boschi. Difficile dirlo.

L'angoscia latente è data anche dai riferimenti autobiografici: la madre di Miyazaki rimase in ospedale per nove anni. C'è un senso di minaccia costante su cui però danza la fantasia, la gioia di vivere e rotolarsi nei prati. La forza dei bambini nonostante tutto, che richiama in toni meno tragici Una tomba per le lucciole di Takahata, uscito lo stesso anno. E anticipa alcuni temi del kolossal Mononoke, ma senza l'ambizione di inscenare uno scontro. Perché qui il cuore del cineasta soffre davvero, e quindi compartecipa alle difficoltà delle sorelline, ovvero lui e i suoi fratelli.

C'è una vita piena di limiti, penosa, faticosa, che nella visione dei bambini si ricolora, si riempie di fiducia. Totoro esiste o è solo frutto della loro immaginazione? Non importa. È l'animale divino che salva le due sorelline, sempre un po' sole vista la malattia delle mamma e le assenze-ritardi per lavoro del papà. Che sia una suggestione fanciullesca? Non conta, perché nel mondo magico di Hayao non sta bene fare distinguo troppo precisi tra realtà e immaginazione. Si alza il vento, bisogna volare, con o senza aeroplano, non è importante.

È in questo senso un film che usa un linguaggio complesso, perché rifiuta le categorie di realtà e fantasia. La realtà è una visione sognante, e il sogno è più che mai concreto se ci aiuta a vivere. La storia viene data anch'essa per sottrazione, non ne vediamo l'inizio e non sappiamo come finisce. Perché non è quello il punto, il Maestro vuole dirci altro. Ci vuole ricordare che nel boschetto vicino (più o meno) c'è per ognuno di noi un Totoro pronto ad aiutarci, se sappiamo superare la paura di avvicinarlo. Non parla, ronfa pigramente, fa versi gutturali spaventosi. Ma se ci fidiamo di lui, ecco che ben presto ci offrirà un pezzetto del suo ombrello in una sera di pioggia. Eccolo che con un fischio fa arrivare il gattobus che ci riporta a casa, ecco che fa crescere le nostre piantine come sequoie. E anche la malattia di mamma fa un po' meno paura.

Tecniche narrative

Come per altri film del Maestro, la qualità delle limature nella narrazione è da gigante del cinema. Se guardate opere come Laputa, vi accorgerete di una capacità strabiliante di dosare personaggi, dinamiche, musiche, oggetti, dialoghi, parole chiave, stupore della visione, significati, morale.

In questo caso, è strabiliante la capacità di far coesistere lo scenario perfettamente realistico (verista quasi, che indugia su elementi infimi ma “grandi”) e gli inserti fantasy. Strabiliante perché i due mondi pur influenzandosi a vicenda, in maniera stringente, riescono a rimanere su due binari paralleli, ma senza che questo venga davvero esplicitato. Mi spiego meglio: lo spettatore può sospettare che Totoro lo vedano solo le sorelline Satsuki e Mei, è più che plausibile, ma a differenza di altri autori meno sagaci, il nostro evita proprio di creare il momento verità. Non c'è occasione per il papà di imbattersi nell'orsacchiotto divino, non sappiamo mai se non lo vede proprio o non ha occasione di vederlo. Forse l'adulto non lo cerca più, per questo non lo vede. Ma Totoro ha pari dignità ontologica degli altri personaggi. “Totoro c'era davvero, non è una bugia”.

Realtà e fantasia, bellezza e timore

Altro aspetto che rende unica questa favola è la scongiurata contrapposizione tra mondo dell'uomo, grigio e opprimente, e mondo fantastico, colorato e liberatorio. È molto più sottile: il mondo vero è bellissimo, pieno di colori, di luci che sfumano nell'oro di un tramonto tra le risaie. Un mondo che contempla l'esistenza del male, del dolore, ma è commovente per la bellezza che resiste come un lascito antico. Ringraziamo per questo Kazuo Oga.

In modo uguale e contrario, la dimensione aliena del fantastico non è solo gioiosa, non è solo salvifica. Totoro non si concede mai come genio della lampada puramente benevolo. Ha una sua dimensione indipendente, che intercetta solo poche volte le necessità delle bambine.

Delizioso Miyazaki quando costruisce giochi e meraviglie attraverso i più normali elementi del concreto. Dalla trave pericolante, al gigantesco albero di canfora. Dai batuffoli di polvere che diventano “corrifuligine” alle ghiande che cadono dal soffitto. La bellezza sta negli occhi di chi guarda.

Il valore della vita

C'è un discorso che va ben oltre la bellezza. C'è il senso di un rispetto estremo per la vita che non può essere messa in discussione, un recupero valoriale di ogni aspetto dell'esistenza. C'è la paura, la casa infestata dai fantasmi, gli spifferi, la mamma lontana. C'è Mei coi lacrimoni. C'è un travaglio che può durare qualche ora o qualche anno. Ma così come la bellezza, anche il valore della vita è nell'indole di chi la vive, e non si può discutere. Non c'è ombra che possa velare l'entusiasmo di chi riesce a vedere Totoro.

Tutto è sacro, tutto è magia, tutto è reale.

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