È possibile mescolare il calore del dub giamaicano con la freddezza della techno di Detroit? A quanto pare sì e Nomad di Headhunter ne è la prova tangibile.
L’influenza delle sonorità caraibiche è stata forte già negli anni Novanta: generi come la jungle e la downtempo, ad esempio, devono molto alle atmosfere rese famose da King Tubby o Lee “Scratch” Perry. Stavolta, però, siamo alle prese con un strano ibrido tra techno e dubstep, un disco-ponte che unisce le due sponde dell’Atlantico, collocandosi a metà strada tra gli Stati Uniti e il Regno Unito globalizzato.
Autore di questo esperimento è Antony Williams, produttore proveniente dalla umida Bristol e reduce da Initiate, EP di cinque tracce che un anno prima, nel 2007, aveva già evidenziato le sue notevoli capacità.
Nomad è il primo e unico LP del cacciatore di teste britannico. Esce per la Tempa, etichetta leader del suono dubstep di fine anni Duemila (nel suo roster troviamo personaggi come Skream, Benga e Horsepower Productions). È un lavoro molto originale, dove i ritmi rallentati e i tipici “wobble bass” incontrano soundscape algidi, a tratti alieni.
L’effetto provocato da questo connubio è senza dubbio bizzarro: sembra di ascoltare un Carl Craig in trasferta a Kingston e rigorosamente strafatto di ganja, che sporca la sua elettronica asettica con bassi pastosi e batterie sincopate.
Nel vagare nomadico tra i Caraibi e il Michigan (o tra la Terra e i Bastioni di Orione) incontriamo varie prelibatezze: si passa dai beat più classici del genere (“Prototype”, che utilizza alla perfezione un dialogo tratto dal cult movie Paura e delirio a Las Vegas) a pezzi dove troviamo casse in quarto e hi-hat in controtempo, secondo la migliore tradizione della club culture (la misteriosa “Paradigm Shift” o la conclusiva “Birk’s Range”).
L’aspetto melodico non sembra interessare particolarmente Antony Williams (un brano come “Technopolis”, incentrato sul ritmo e sulla sovrapposizione di materiale sonoro, è abbastanza indicativo), tuttavia sarebbe errato considerare Nomad un’opera prettamente concettuale: a volte s’intravede il lato umano di Headhunter, percepibile nelle voci della sognante “Your Say”, tutta handclap e percussioni.
Il vertice viene raggiunto dall’ipnotica “In Motion”, straordinaria dub-techno che pare continuare all’infinito, fino a quel vuoto intorno ai tre minuti, preludio a un climax fatto di tastiere sghembe uscite direttamente dalla discografia degli Orbital.
Questo è Nomad, prendere o lasciare. Siamo davanti a un oggetto concepito in uno studio di registrazione perso tra le Antille e le galassie più remote, una testimonianza di una musica futuribile, per molti astratta e inumana, e che, però, è già realtà.
Resta il rammarico per un seguito che non è mai arrivato (negli anni Dieci Williams ha dato vita al progetto Addison Groove); nonostante ciò, il debutto di Headhunter si lascia ancora ascoltare ed è stato solo in parte scalfito da quel processo di invecchiamento che, ahimè, ha pregiudicato buona parte dell’elettronica inglese del periodo.
Insomma, se avete voglia di una crociera nello spazio e non avete paura di scoprire una sinfonia composta da un extraterrestre in fissa con la marijuana, Nomad fa sicuramente al caso vostro.
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