Avete presente il presente? Ebbene, è già passato.

Tutto il fiato del mondo non vi basterà per rincorrerlo.

A provarci però, uno strano rinculare ed un leggero tramestìo di budella si fa avanti nei vostri meandri indefessi e indigesti.

Messo in musica suona più o meno come questo disco.

Titolo intraducibile nella sua vorticosa polisemia, vorticosa cosiccome ciò che esso contiene, Too Much Sugar for a Dime è un agguato teso al buonsenso.

Lacera le catalogazioni ad esso apposte, a bella posta disattese: quel che si può dire è non poterne dire molto. Di sensato almeno.

Di insensataggine ne abbiamo quanta volete, basta chiedere.

Ebbene, preamboli permettendo, pur sempre e soltanto di movimento si tratta, nella musica come in tutto il resto (quale resto?); di peripatetismi vari ed eventuali, dilaniato da epifanica idiozia, sembra scaravetrare e dissodare la nostra pantofoleria.

Non è solo l'ennesimo cacofonico free-jazz tanto vituperato assieme al punk inglese dal noto siculo, né null'altro che si possa definire.

Corre sul crinale, senza incespicare né inebetirsi in una forma riconoscibile, ondeggiando.

Un ipnotico arrabattarsi.

Suona così il divertimento di chi non ha nulla da perdere, nulla da vincere e nulla da pretendere dallo sfiatare in un ottone.

Tutto ad un tratto poi, un intermezzo percussivo, una limpida melodiosa cantilena africana, e poi di nuovo, dal ritmo allo scardinamento di esso.

Questa, che lo si voglia o no, è l'eredità più viva del buon Babatunde Olatunji, la cui percussività scanzonata e primigenia ha dato vita all'intera gamma della musica moderna, ora rimiscelata e rinverdita da H. Threadgill alla bell'e meglio.

Un futuro-passato, che scalza senza colpo ferire ogni desinenza.

Vivere nel presente è anche questo: indicare un orizzonte che non c'è.

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