Il mwandishi Herbert Jeffrey Hancock, l’uomo-cocomero, il gran ballerino di dita dell'âge d'or della Blue Note, ha messo insieme una banda di cacciatori di teste armati a dovere di strumenti percussivi della madre Africa e di quant’altro poteva servire a cacciar fuori il ragno dal buco (e il ragno siamo noi, pigriziofili da strapazzo). S'è messo comodo di fronte a foreste pluviali di tastiere, clavinet e sintetizzatori, ha indossato una maschera tribale (o una caldaia con le corna? entrambe: una pentola a pressione piena di afrofunk in iperagitazione) ed ha avviato la stagione della caccia.
Una caccia breve ed indolore, quaranta minuti e spiccioli di frenesia: quattro batture di caccia registrate su solchi al PVC per la testa e le orecchie di gente abituata a mondi sonori be-bop, fraseggi ariosi e passaggi briosi e raffinati. Ha preso per la collottola questi bei gagà incravattati e li ha benbene centrifugati, obbligandoli, col ritmo irrefrenabile d’un basso elettrico, a disfarsi di ogni rigidità. Questi sono gli anni Settanta; questa l’Africa, arcaica e sci-fi, di Herbie:
Un camaleonte ammaliante e concitato, un basso ostinato e una caccia a perdifiato da far ribollire il sangue.
Un uomo-cocomero nuovo di zecca, cortocircuitato tra tribalismo Ba-Benzélé e futuribilità funkeggianti.
Un tale Sly (e chi vuol intendere intenda), vortice ipnotico e arroventato.
E per finire uno scioglitore di vene, mellifluo notturno di Chicago, con inserti sintetici da capogiro.
Sfuma in nero, lasciando in bocca quel sapore di mattana e quella lieva vertigine da centrifugatura che ti spettina la vita e te la risistema a testa in giù.
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