Un misterioso coro antico che si ripete in loop, un mellotron statico e un canto vietnamita.
Holger Czukay, prima di formare i Can, era uno sperimentatore elettronico, allievo di Stockhausen, che giocava con i campionamenti e cercava di mischiare avanguardia "classica" e sonorità rock. Ci riusciva e lo faceva anche bene perché questo Canaxis 5 non solo è un punto di riferimento per tutto l'ambient e il krautrock che sarebbero venuti anni dopo, non solo è uno dei primi e migliori esempi di sonorità world-music, ma è anche una fornace di emozioni che non esistono.
Quando si parla di album visionari e fuori di testa come questo, per me che non sono un poeta, non sono uno scrittore, né un filosofo, "trascriverli" diventa arduo. Certo da un lato c'è anche potenzialmente più materiale rispetto alla "norma" ma molte cose sono inspiegabili pure a me stesso. Eppure so che ci sono. E' uno di quegli album che hanno quel non so che, quel qualcosa di inafferrabile, appena percettibile, che però colpisce nel profondo. Quindi sono qui a frugare tra le parole con la convinzione che comunque sarà una banale approssimazione. Potrei sempre parlare oggetivamente delle tecniche di campionamento, della struttura dell'opera, dei suoni utilizzati ecc., ma non è certo primariamente per questi "fatti" freddi e senza semantica che trovo interessante scrivere e leggere una recensione.
Mistero, mistero del cosmo e dell'esistenza, quindi paura, paura del buio, dell'inconoscibile, della morte. La reiterazione circolare di una solenne frase sonora dà sensazione di staticità, il tempo non ha più importanza. La vacuità della realtà è spiattellata in faccia senza alcun filtro, senza pietà. Le voci vietnamite sono come un segnale ignoto, proveniente da un angolo remoto dell'Universo, che si ripete senza senso, come un messaggio che vaga patetico nella desolazione del tempo, perdendo mano mano ogni tipo di emozione e rimanendo come un inutile relitto vagante. La depressione/disperazione esistenziale dell'uomo rimarrà per sempre senza compassione e l'enigma senza soluzione. L'uomo è miseramente solo, nudo, nella sua fredda paura. La vita in fondo è morte. Il messaggio scompare perché non può avere vita eterna, ci sono solo le rimanenti fluttuazioni quantistiche dello spazio-tempo che sembrano però adesso urlare senza forza di un dolore infinito.
Ecco, nel secondo scenario, librarsi tormentata e sofferente, la voce di un dio chiuso in un inferno alla fine di tutto (forse la continuazione del concetto precedente) che si lamenta e farnetica in un penoso stato di degenerazione mentale. La sua è una dannazione eterna in cui è caduto per rimorso di quello che ha creato: un universo in cui tutto è estemporaneo, effimero, tutto è tristemente senza senso. Lo spazio che fa da sfondo è immenso e c'è solo desolazione. Per pochi frammenti temporali non ben identificati ci ritroviamo davanti l'incommensurabilità del cosmo, ed è terrificante.
Le emozioni che scaturiscono dai concetti di cui questa musica è pregna (che non riesco a descrivere se non superficialmente), degni di saggi filosofici, lasciano sgomenti. Probabilmente il sentimento più forte, che forse è anche la conclusione a cui si giunge dopo aver affrontato questo viaggio, è un senso di tenerezza e compassione nei confronti dell'esistenza umana, così labile, così stupida. La potenza significativa ed evocativa travalica pressoché ogni altra cosa mi sia capitato di ascoltare e mi fa porre quest’album tra i migliori di sempre.
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