Tutto ciò che mi ha lasciato interdetto nell'ascolto del loro début, adesso, in questo séguito, mi fa venir voglia di applaudirli. Al secondo tentativo, gli Hothouse Flowers riescono a mescere alla perfezione il pallore-rossore (delle lentiggini) della pelle irlandese al nero di quella dei coloured d'America.

A scanso d'equivoci, ripeto che la mossa in questione non fu originalissima, e che molti artisti, inglesi ma anche scozzesi ed irlandesi, provarono (e, ciascuno a suo modo, riuscirono) a trovare la propria strada per far convivere la musica che era nell'aria e nel loro dna a quella che invece stava dentro ai loro sogni, nei loro gusti e nelle loro ambizioni.

Gli Hothouse Flowers, lungi dall'accostarsi a roba pomposissima come certi pezzi degli U2 (roba tipo "I Still Haven't Foud What I'm Looking For" e "Desire"), al contempo non beneficiari di alcuna ballatona di Prince o dal qualsivoglia artista di colore, sperimentano, nel 1990, la loro ricetta personale.

In un solo episodio, al gospel viene legato il folk della tradizione, e tutto si può dire tranne che questo sia un lavoro di matrice folk. Per inciso, l'altro pezzo folk non va neppure in direzione ovest, ma predilige l'oriente dei templi buddhisti. Per il resto, per il pop, qui c'è la più totale abbondanza: si va dallo spiritual-rock di "Hardstone City" al blues lentissimo di "Sweet Marie", in cui il canto degli schiavi diventa ninnananna. In un paio di brani, "Give It Up" e "Giving It All Away", vi è il perfetto sposalizio tra il tormento epico-celtico ed il panico sentimento, tutto afroamericano, di trovarsi nella gloria d'Iddio più totale. In "Christchurch Bells" la stessa soluzione vale per una ballad placida: il vecchio soul spegne tra mille fumi l'inquitudine animista di chi ha da sempre il vento tra i capelli.

La ricetta degli Hothouse Flowers pare universale, e va bene anche per la celebre "I Can See Clearly Now" di Johnny Nash; funziona persino in "Movies", pezzo più ballabile con uno spazio strumentale per basso funky, percussioni esotiche e... armonica a bocca (!). In una continua escalation, in "Shut Up And Listen" pare che i poveri africani non fossero stati deportati fino agli Usa, ma in Irlanda, per lì lavorare e risiedere: qui Ó Maonlaí è il primo bluesman sulla faccia della terra che si cimenta in un traditional irlandese. E se la prima canzone della storia non fosse stato un canto tribale, ma una preghiera in gaelico?

E' possibile, in fin dei conti, che questa possa essere una valida chiave di lettura: per quanto rimessa a nuovo, al passo con i tempi, africana od irlandese che sia, la musica degli Hothouse Flowers, nella religiosa ricerca di ciò che è vero, pare (consapevolente?) ambire ad essere l'eco d'una voce millenaria.

Pagan rock.

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