Gli Hum ci avevano lasciato alla fine degli anni '90 con due capolavori: You'd Prefer An Astronaut e Downward Is Heavenward.
La peculiarità della band statunitense risiedeva nella capacità di coniugare mirabilmente una varietà di generi (post-hardcore, space-rock, venature shoegaze); ma soprattutto di accostare in un connubio quasi impossibile una brutale "heaviness" data dal muro sonoro delle chitarre (da cui i Deftones trassero ispirazione, già) con uno squisito gusto "pop", insomma una naturale, talentuosa inclinazione verso la melodia. Era così possibile, durante l'ascolto, lasciarsi andare al più spinto degli "headbanging" e crogiolarsi al contempo in atmosfere ora dolci, ora sognanti, ora malinconiche (quasi come se i nostri riuscissero ad essere emo - naturalmente nel senso buono del termine - senza fare emo).
Più di vent'anni dopo, ecco l'attesissimo (principalmente dalla fanbase, chiaro) Inlet: cosa c'è che non va con questo lavoro così carico di aspettative? Perchè rompere le palle? Ma perchè di meravigliose melodie, istantanee di poesia, romanticismo e sogno non è rimasto pressochè niente; quello che ci propongono gli Hum è un album (che oscilla tra il mediocre e il discreto) fatto di pesanti riffoni, pesanti riffoni, pesanti riffoni e qualora non se ne avesse abbastanza, altri pesanti riffoni. Qualcuno ha detto, una melma di pesanti riffoni. La appena citata pesantezza è stata ulteriormente accentuata rispetto al passato, non a caso se vogliamo continuare a ragionare sulle etichette stavolta possiamo spingerci a parlare di tendenze alternative metal e post-metal, accanto al consueto, antico nocciolo space-rock.
Insomma, sottraendo uno dei due elementi fondanti, l'incantesimo si è rotto. Forse bisognava prevederlo che i nostri avrebbero desiderato (o che sarebbe venuto loro naturale) intraprendere un'altra strada, forse invece dopo un buco lungo un ventennio era legittimo aspettarsi una degna chiusura di trilogia.
Ma il cambio di rotta non è tutto, perchè oltre alla variazione di registro c'è da osservare che anche il songwriting di per sè non è a livelli eccelsi, cosa che rende l'album spesso francamente noioso. E vent'anni non sono pochi per permettere alle proprie capacità creative di fermentare...
"Waves" in partenza ci prova, ma potrebbe essere accostata alla "Star Roving" presente su un altro comeback, quello degli Slowdive: gradevole, nulla più.
"Cloud City" è la sola che sembra riportare in vita un po' di quella magia dei vecchi cari Hum, ma proprio sul più bello anzichè insistere sul versante melodico s'intestardisce nella solita ripetizione sfinente di riff.
Il finale con "Folding" che fa da assist e "Shapeshifter" che va in gol potrebbe essere la parte più riuscita del tutto, anche se a costo di ripeterci, ci tocca notarlo ancora una volta: è "soltanto" space-rock. Magari qui fatto un po' meglio, ma privo di una particolare ricchezza di sfumature.
La qualità, insomma, oscilla tra la sufficienza stiracchiata e l'insufficienza; per quanto riguarda la natura del prodotto, potrebbe essere più coerente se fosse un'uscita dei Failure, o - per quello che ci dice a tratti - dei Jesu; ma dagli Hum, artisti ben più camaleontici e raffinati, dopo tutto questo tempo, noi ci aspettavamo ben altro. Beh, no, siamo precisi: io mi aspettavo ben altro.
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