Se Picasso ha avuto il suo periodo blu allora a tutti gli altri artisti è permessa ogni cosa. Ve ne sono molti che partono dall'indipendenza totale per poi, a distanza di anni, divenire commerciali e persino ruffiani, cosiccome altri partono modaioli e pesantemente influenzati da artisti che vanno per la maggiore, e strada facendo vanno trovando la propria cifra stilistica.
E' questo il caso di Imogen Heap, anagrammata in questo "iMegaphone", che nel giugno del 1998 esordiva ad appena ventuno anni. Nel decennio scorso, sebbene la Heap dimostrasse già di preferire le algide e meno fruibili sonorità elettroniche, l'autorato della fanciulla dell'Essex sembrava prevalentemente riferito ad Alanis Morrisette piuttosto che all'allora capostipite dell'elettronica europea, l'islandese Bjork.
Pop da classifica, comunque, ed in genere roba che il recensore che vi scrive non amò, nemmeno quando andava per la maggiore. Ecco, pur mantenendosi all'interno di una traccia che oramai è un'autostrada, Imogen fa tutto ciò che è in suo potere di ragazzina per sottrarsi alla fine dei plagiatori. In questo, bisogna dirlo, la scelta per l'elettronica, ed in genere per la sofisticatezza, dà il suo bel contributo. Contributo che però allontanerà la Heap dalle zone più alte delle charts, condannandola a certi destini che fanno le ragazze quando vengono incoronate reginette del cool: amate ma non rassicuranti, tutte le sognano e nessuno se le sposa.
L'iniziale "Getting Scared", e poi "Oh Me, Oh My" sono brani per papere canadesi privati delle chitarre elettriche. "Sweet Religion" di Morrisettiano ha i ritornelli, ma perlomeno a questi ci si arriva attraverso trame meno lineari e pallose di quei logorroici versi della Alanis, tremila parole ed un accordo.
Spesso la tecnologia irrompe, strania, crea lievi divagazioni, diversifica, e su queste irruzioni la Heap farà sapiente affidamento in futuro, ma qui non è che si ampi granché il respiro dei brani. Così è per la ballad "Shine" o per la già citata "Oh Me, Oh My".
Decisamente meglio quando, piuttosto che la miliardaria inventrice di "Jagged Little Pill", Imogen pare ispirarsi a P.J. Harvey, più intricata ed intrigante. Bella "Rake It In", filastrocca per pazzi criminali che ad un certo punto si trasforma in un bordello assatanato, ed abbastanza godibile "Come Here Baby", ballad che parte lenta al piano con l'accelerazione al punto giusto. C'è gente qui, a suonare e soprattutto a produrre assieme alla Heap, che sa cosa sono i suoni ed i rumori: figùrati se questa gente non sa dosare a puntino gli ingredienti di una ballatina, e figùrati se non sa confezionare un pezzo più ballabile, come "Useless", che singolarmente assomiglia ai brani danzerecci della Morrisette del 2008, e non tanto a quella degli anni novanta.
Allo stesso modo era impensabile non chiudere con la più sensibile e caramellosa ballata, roba che ti attenderesti solo dalla più passiva delle monfalconesi. Nel mezzo il rock senza chitarre "Whatever", roba che col giusto suono e con la giusta cantante sarebbe stata da primi posti nelle charts, ed un unico rock da stadio, e con tutti gli annessi e i connessi sonori.
Imogen Heap, perlomeno in questo esordio, è meno originale di come volle apparire già allora. Meno sguaiata vocalmente ma anche meno potente ed eloquente del suo riferimento artistico d'allora, dunque più incline a proporsi in àmbiti più confidential e, vuoi o non vuoi, cool. Un'artista che dovrà misurre il suo talento compositivo in varie prove ed àmbiti per trovare finalmente la sua originalità. A cominciare dai Frou Frou.
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