Già la bellissima foto in copertina dell'italiano Roberto Masotti lascia intuire quali saranno le atmosfere in cui ci troveremo immersi all'ascolto di questo disco. Una pianura verde sovrastata e soffocata da una distesa di nuvoloni neri annuncianti una furia imminente, un cielo minaccioso come solo la natura sa essere. Un tipico paesaggio nordico insomma, o meglio, norvegese. Norvegese come la città in cui l'opera è stata registrata, Oslo (1978). Norvegese come Terje Rypdal, chitarrista di gran classe accompagnato qui da Miloslav Vitous (primo bassista dei Weather Report) al contrabbasso e al piano elettrico e da Jack DeJohnette alla batteria.
Tutte queste premesse lasciano pochi dubbi sul tipo di musica che andremo ad ascoltare ma sono le prime note di "Sunrise" a spazzarli via del tutto. Sonorità dilatate, eteree, rilassate si materializzano nell'aria gelida, poi il ritmo si fa più veloce, diventa tenebroso, come le nuvole in copertina, tocca un apice ideale e ripiomba per poche note in una soffusa chiusura.
Il pezzo seguente, "Den Foste Sne", segue la stessa scia del precedente ma l'atmosfera si fa ancora più sognante, non ci sono toni tetri, c'è solo da perdersi nella desolante bellezza di quei paesaggi. Solo nel finale le note della chitarra di Rypdal salgono in superficie come per risvegliarci dal sogno.
Ma il sogno non è finito. "Will", forse la migliore composizione del trio, ci solleva da terra e ci porta dritto in mezzo a quelle nuvole, ed è magnifico. Sopra una eterea tela di tastiere i tre dipingono note struggenti che toccano l'anima. Tutto sembra in equilibrio, i tre musicisti sono in perfetto equilibrio tra loro, non c'è un leader, c'è una fusione dei suoni fine a creare una magica atmosfera. E' bello riuscire a volare con loro.
"Believer" è una sorta di passaggio, di preparazione al cambio di rotta portato da una "Flight" in cui la calma sembra essere sparita. Le divinità nordiche sono infuriate, la tempesta prima minacciata è adesso arrivata. Se prima Vitous accarezzava le corde del suo strumento adesso le tormenta e le violenta con l'archetto, tira fuori note agitate, furiose, nervose, quasi si trovasse tra le mani un violino. DeJohnette e Rypdal lo seguono a ruota creando vortici di angosciosa bellezza. Bastano poco più di cinque minuti di furia a bilanciare la calma apparente di tutto della prima parte del disco.
Ma i Nostri sembrano divertirsi a prenderci di sorpresa. Per il pezzo che chiude il disco, dopo la drammaticità di "Flight", ci si aspetterebbe un ritorno al dolce sognare. E di sogno in effetti si tratta, ma è un incubo in cui i suoni emessi dalle tastiere e dalle chitarre materializzano all'orizzonte lupi e spettri danzanti. Si tratta però di una paura romantica, di qualcosa che ci attrae inesorabilmete. A parere di chi scrive "Season" è l'unico altro pezzo del disco che si avvicina, per pathos ed intensità, alla magnificente bellezza di "Will". Per chiudere in bellezza Vitous ci regala un assolo da brivido, pochi secondi ma divini.
Non credo sia possibile imprigionare questo disco in un genere. E' jazz, è fusion, è ambient, è psichedelia? E tutto questo e niente di questo. E' un disco romantico (nel senso storico del termine) da ascoltare ad occhi chiusi, in solitudine, per essere trasportati nelle immense distese della steppa norvegese o per sentirsi per qualche istante come Friedrich di fronte ad un mare di nebbia.
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