Salve a tutti. Questa è la mia prima sedicesima recensione, spero che tra quelli che la leggeranno ci sia chi sa essere comprensivo, magari avrà voglia di insegnarmi come si fa. Non è una cosa che mi venga facile, e questa difficoltà non mi ha permesso di far di questa mia prima sedicesima recensione una recensione comprensiva di tutte le informazioni essenziali. Mancano all’appello quattro righe di presentazione del jazzista Paul Bley, il personaggio più importante nella realizzazione di questo disco. Non ne so molto, quel che so è che era a suo nome la band che produsse la musica di queste registrazioni, sua l’etichetta discografica che pubblicò il disco (Improvising Artists), suoi e di un paio di importanti jazziste che si successero nel ruolo di sua moglie, i pezzi che lo compongono, sue le note di tastiere che ci sono dentro.

E mancano anche informazioni a supporto di un’idea che mi sono fatto leggendo del percorso di sperimentazione con i sintetizzatori che Paul Bley intraprese negli anni 60. Beh, questo disco farebbe la sua figura come tassello in un percorso del genere considerando la strumentazione interamente elettronica con cui fu realizzato, ma non so dire se fece efettivamente parte di quel progetto.

A questo punto dico Space Jazz per motivi che saranno chiari alla fine.

Ad essere onesti non sono nemmeno riuscito a far di questa recensione la mia prima sedicesima recensione. Forse potrebbe riuscire ad essere la prima seconda sedicesima recensione che pubblico, forse la prima trentaduesima, dovrei verificare … forse la prima su Pastorius, … no, neanche questo, se ci penso bene ne ho già parlato altre volte. È complicato arrivare prima di se stessi!

Magari ne dico una giusta se dico che è la prima recensione su questo sito sulle prime registrazioni in carriera di Jaco Pastorius e Pat Metheny. Da quel che ho letto sul disco pare che di questo si tratti. I due si erano conosciuti, poco più che ventenni, giusto un anno prima di finire a suonare nella band di Paul Bley. Il suono del basso di Pastorius è già riconoscibilissimo, quello della chitarra di Metheny, per quel poco, pochissimo che ho sentito, direi di no, e alla fine non è neanche un fatto malvagio.

Il saluto, almeno quello, era sincero. Ve lo faccio dagli anelli di Saturno dove sono stati spediti i miei timpani con me attacco dalla musica contenuta in questo disco. Gli oggetti che formano gli anelli, a cui piace solitamente presentarsi nella forma di corpi rocciosi, per una volta scelgono la veste di note, e non scelgono male perché sono quelle del basso di Pastorius. La mia sensazione è quella di volarci attraverso schivandoli per alcuni tratti lentamente, per altri a fortissima velocità, con accelerazione improvvise. Gli interventi di Metheny e Bley sono a volte stelle che si intravedono per un attimo tra un oggetto e l’altro, a volte raggi di luce che corrono nella stessa direzione dell'ascoltatore schivando anche loro i corpi rocciosi, a volte nebbie di luce di diversi colori. A tenere la rotta la batteria di Bruce Ditmas. Il succo del disco è costituito da quattro lunghe improvvisazioni su temi guida. Evidenzio gli sviluppi melodici del piano elettrico di Bley in Vashkar, il walking bass siderale di Donkey, i grappoli di note supersonici, le variazioni e la chitarra distorta di Metenhy quasi rock 70 in Vampira, e il basso di Pastorius in Batterie. Il resto sono brevi frammenti.

Provo l'ultima definizione: questa è la prima recensione sul deb in cui viene utilizzato il termine “Space Jazz”. Un po' difficile che lo sia veramente, non sono nenache sicuro che esista lo Space Jazz. In tal caso però sarebbe una buona cosa inventarlo.È probabile che il termine più corretto da utilizzare in questo caso sia Free Jazz e forse solo a me sta musica riempie la testa di tutta sta cosmicità. Potrebbe anche essere che alla fine questa recensione si riveli niente altro che la prima in cui si azzarda una definizione tanto improbabile per della musica. Cerea fanciot.

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