Il secondo album della poetessa e songwriter Jamila Woods, Legacy! Legacy!, è un’opera multiforme che necessita di un po’ di tempo per essere apprezzata del tutto e che rivela nuove e interessanti sfumature ad ogni ascolto.
A un primo impatto, infatti, il disco potrebbe sembrare una copia poco convincente di Worldwide Underground di Erykah Badu o The Miseducation of Lauryn Hill, un debole omaggio alla cultura afroamericana incapace di incidere realmente sul presente; e invece non è così. Ascoltando Legacy! Legacy! si scorgono particolari via via più intriganti e ci si ritrova rapiti dalla voce di Jamila, un’artista che pur ricordando alcuni illustri predecessori si distingue per il timbro delicato, le eccellenti capacità di scrittura e l’approfondimento di tematiche femministe, culturali e razziali.
Il lavoro viene pubblicato tre anni dopo HEAVN e consiste in un percorso poetico diviso in tredici tracce o capitoli, ciascuno dedicato a un personaggio che ha influenzato Jamila durante la sua formazione artistica e culturale. I nomi sono notevoli (Betty Davis, Frida Kahlo, Sun Ra e Jean-Michel Basquiat, per citare i più noti) e tuttavia agiscono come un semplice sottotesto, limitandosi (si fa per dire) a stimolare le riflessioni della cantante, sempre in bilico tra slam poetry e conscious rap e impreziosite da interessanti aperture melodiche, di stampo soul e r&b.
Questo particolare dice molto sul sound del disco, che recupera il passato della black music e lo inserisce in un contesto contemporaneo, dove la strumentazione live dialoga con drum machine, campionatori e inserti elettronici che strizzano l’occhio all’hip-hop e alla famigerata trap. Il tutto è amplificato dal titolo, con quel “legacy” ripetuto due volte e condito da punti esclamativi, quasi a voler sottolineare il carattere duplice dell’eredità, preziosa e ingombrante al tempo stesso: da un lato un onore, dall’altro un onere.
Si giunge così alla questione principale, che può essere formulata in questo modo: Legacy! Legacy!, con i suoi riferimenti, riesce a rinnovare la tradizione nella quale si inserisce, recuperando freschezza e vitalità? La risposta è sì, perché Jamila Woods non si limita a citare il jazz, l’hip-hop e l’r&b, ma li attualizza e li cala nel presente, sia esso politico, culturale o musicale. In altri termini il disco riflette le incertezze della nostra società e si collega a quell’ondata di orgoglio “black” diffusasi oltreoceano, a sua volta espressione di un movimento più ampio, che rivendica i diritti delle minoranze e le invita ad abbandonare la loro posizione subalterna nei confronti del potere.
Il desiderio di libertà ed emancipazione viene declinato in maniera diversa e quasi sempre efficace: in “Betty”, ad esempio, le parole di Jamila accennano a quelle relazioni tossiche in cui l’uomo controlla la donna e le impedisce di vivere una vita normale (“Let me be, I'm trying to fly, you insist on clipping my wings”). Fonte d’ispirazione è l’icona femminista Betty Davis e il sound risulta convincente, con un pianoforte che si fonde con ritmiche trap e hip-hop.
Oltre a miss Davis ci sono altre figure femminili, talvolta poco conosciute, che accompagnano Jamila nel suo viaggio: la scrittrice e antropologa Zora Neale Hurston, eletta guida spirituale in “Zora”, apologia della natura dinamica e “fluida” dell’identità e della sua irriducibilità a etichette e definizioni; le poetessa Nikki Giovanni, che cede il suo poema Ego Tripping a quel sentito omaggio alla “black unity” che è “Giovanni” (bellissimi alcuni versi, dove Jamila rivendica il diritto a esprimere come meglio si crede la propria rabbia: “Little bitty, you wanna call me/A hundred muthafuckas can't tell me/How I'm supposed to look when I'm angry/How I'm supposed to shrink when you're around me”); la pittrice Frida Kahlo, che insegna a mantenere le giuste distanze nelle relazioni sentimentali e amorose (“I like you better when you see me less/I like me better when I’m not so stressed”; e ancora: “We could do it like Frida, we could build a bridge then/I could come see ya”).
Non deludono le canzoni dedicate agli uomini che “illuminano” l’affresco di Jamila: si va dall’eccellente groove di “Muddy” alla splendida “Basquiat” (un brano articolato, che ricorda il crossover tra jazz e hip-hop proposto da band come i The Roots), passando per il trip cosmico e psichedelico di “Sun Ra”, con quel “My wings are greater than walls” che sembra alludere al presente americano, fatto di odio, muri, violenza e segregazione.
Certo, il rischio dell’operazione è che l’aspetto sonoro passi in secondo piano rispetto alla profondità dei temi trattati e tuttavia ciò non accade, perché la cantautrice di Chicago riesce a mantenere un equilibrio tra parole e ritmi, forma e contenuto, una dote non da tutti che rende Legacy! Legacy! un lavoro non solo riuscito, ma anche coeso, scorrevole e senza dubbio affascinante.
In conclusione, il sophomore album di Jamila Woods non tradisce le aspettative createsi dopo l’ottimo esordio e raggiunge pienamente il suo obiettivo: realizzare un’opera complessa ma ascoltabile, in grado di mescolare la raffinatezza della poesia con il funk, il soul e la saggezza stradaiola tipica della cultura afroamericana.
Per citare il rapper Jus Allah dei Jedi Mind Tricks: “I speak wisdom, translated to street diction”. Un pensiero che si può applicare perfettamente a Jamila Woods e alla sua suggestiva proposta musicale.
Voto: 4/4,5
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