Sarà stato anche un pastrocchio dolciastro, ma in quel momento era la canzone più bella del mondo. All’inizio guardavamo la cosa con sospetto, ma di li a poco diventò impossibile resistere. Per noi, povere bestioline ormonali, l’effetto era come quando Noodles guardava Deborah di nascosto, li era il Cantico dei Cantici, qui Cime Tempestose.
La canzone parlava di un fantasma, ma ovviamente non ne sapevamo nulla, per noi era solo una roba di femmine, uno spaccato d’ombra che non capivamo, un mistero assoluto. Ci scherzavamo anche sopra, tipo “ma come canta questa?” oppure “sembra il gesso sulla lavagna”, ma ognuno di noi adorava in gran segreto quella ragazza dagli occhi spiritati, ovvero la signorina Cespuglio, ovvero Kate Bush.
Per cui, gentile Jane, figurati se il mio cuore non ha fatto bum nello scoprire che quell’incanto finito dentro una palla di vetro è stato il tuo imprinting, immagino la faccia che avrai fatto vedendo quel vetro incrinarsi per via di una voce come minimo da gatta, ma soprattutto, direi, da strega, son cose queste che segnano per sempre, tra l’altro avevi appena cinque anni, una roba che solo a scriverla il livello di perturbante sale fino alle stelle.
Poi, oltre alla strega Kate, c’è la fanciulla in copertina, strega pure lei. Ha uno specchio in mano o forse una lente, protesi oculare attraverso cui legge il mondo, non è una cosa troppo esoterica, in fondo è come aprire una finestra, immagino sia questo l’amore del titolo, una specie di incanto a due passi o forse “la natura che ti ricorda che devi vivere”. Che poi dovete sapere che le streghe non è neanche colpa loro, son gli spiritelli che le cercano, le seguono, gli fanno marameo, almeno così diceva quel saggio, sempre che io non ricordi male.
Poi c’è anche che a produrre c’è John Parish, uno che di streghe se ne intende, a cominciare dalla mia amatissima Polly. Cavolo, qui i suoni son talmente belli che vorresti che non si staccasse mai la spina, che le pile durassero per sempre, insomma che le canzoni non finissero mai. Come hai fatto John, che ti sei inventato? Hai seguito il Bianconiglio? Hai ucciso l’Uomo Ragno? Anche se poi alla fine tu sei soltanto (?) il mister Wolf della situazione, l’umile artigiano, quello che risolve problemi. E’ Jane ad interpretare Alice. È lei quella che la curiosità la porta sempre da un’altra parte, quella che ogni disco è diverso dal precedente, una talmente innamorata dell’insolito che se scova uno strumento fatto di nuvole e bottoni non vede l’ora di metterci le mani.
E sempre lei è quella che ha idee tipo ripassare i testi in padella, ovvero spostarli da un google translate all’altro, nel tentativo di ottenere un effetto tipo sottotitoli di un film francese dove se sai un po’ di francese ti rendi conto che forse in realtà si parla d’altro. Insomma, altro che formule magiche, le nostre parole non sono che sottotitoli approssimativi rispetto alla realtà che vorrebbero raccontare, fa niente tanto quello che conta è la musica, ovvero il vento, il sole, la pioggia, la tempesta o quello che vi pare.
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E’ da un po’ che volevo scrivere di questo disco, ma non mi veniva niente, persa nel piacere dell’ascolto, la bestia recensoria se ne stava a cuccia. Oggi però mi armo di bisturi analitico e faccio a pezzi le canzoni per vedere come sono fatte, in fondo che ci vuole, basta fare attenzione e prender nota, ecco una chitarra in fondo a destra, ecco i vari tum tum appena dietro l’angolo, ecco la smerigliatrice angelica. Ma mentre, attento a ogni sfumatura, scruto ogni anfratto angolo ripostiglio, una buffa vocetta severa mi ammonisce “Oh Lulù bello, che senso ha scomporre, dissezionare, frastagliare? Quella è roba che si fa con le cose morte.”
Allora quel che non mi riesce con le parti, provo a farlo con il flusso, l’onda sonora, l’insieme non scomposto. Così improvviso li per li una formuletta, la classica boutade da recensore, tipo che sto flusso sarebbe “una sognante freschezza vintage ora espansiva, ora avvolgente”, ma il fatto è che subito torna la vocetta e mi invita (uno) a non menare il can per l’aia, (due) a concentrarmi sulla strega in copertina. Li per li non capisco, ma poi, dopo un po’, ci arrivo. Il flusso, l’onda sonora, l’insieme non scomposto è tutta roba che passa dalla protesi oculare della strega, un po’ come fa la luce col prisma dei colori.
E, mentre Jane canta con la sua voce di cristallo, il suono si frange in un variegato insieme di piccole magie. Ti accorgi, qua e la, di cose minime e bellissime, un frammento che suona come un giocattolo, lo scorcio d’arpa dove si impiglia il vento, l’elenco sarebbe lungo, ma in fondo non importa, tanto tutto è sempre uguale eppure sempre diverso, con le singole parti rimestate dentro lo stesso calderone e una sorta di unità di pensiero che spennella con grazia il colore di fondo. Ogni gioia, ogni malinconia è sottesa in un incanto che tutto sospende, immagino sia il potere delle streghe oppure il fatto di scrivere canzoni come Dio comanda.
Si inizia come quella volta che ero in macchina e a un certo punto da un mistino C90 son partiti i Neu, poi due è elegante e quasi soul, tre è l’estate cosmica, quattro è incanto folk, cinque è troppo bella, seguono sei sette otto nove dieci, con dieci che è quasi Nico.
A un certo punto, traccia nove, si dice che nell’universo c’è qualcosa di sbagliato, allora meno male che sei una strega cara Jane e allora però fammi un favore, se hai uno spiritello che ti avanza, uno di quelli che ti fan vedere quell’amore che dici, allora mandamelo a casa che io su ste robe sono ancora indietro.
Ah, tra psichedelia, folk e kraut modernista con in filigrana quel suono un po’ Broadcast, un po’ Stereolab. Il tutto in chiave molto molto pop.
Trallallà...
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