Piaccia o non piaccia ognuno di noi è anche la risultante del contesto sociale, storico e naturale in cui si trova inserito. Certo, il miracolo della personalità mischia notevolmente le carte e scompagina i percorsi, ma non si può far finta che l'albero non influenzi il colore, la grandezza e il gusto dei frutti che partorisce.

Posso anche dichiararmi non-credente, per esempio, ma già solo il fatto che ho sempre provato ad immaginare come potrebbe essere il mio piccolo inferno personale che, eventualmente, mi spetterebbe dopo la vita dimostra molte cose. Un semplice baloccarsi di superstizioni, ridicole leggende e putrescenti eredità culturali? Assolutamente sì, ma sono proprio quelle e non altre.

Comunque è presto detto: solo, costretto su una sedia, perennemente sveglio e con la coscienza della mia vita ormai passata, immagino di veder proiettate su uno schermo tutte le parole che non ho mai detto, le cose che non ho mai fatto, le persone che non ho mai conosciuto, le occasioni che non ho mai colto. Tutte quelle strade, tutte quelle infinite possibilità, tutte quelle ramificazioni delle ramificazioni delle ramificazioni ecc. ecc. che per indolenza, insostenibilita, incapacità, Fato o altro mi sono state negate (o mi sono negato). Insomma, il monito "ogni lasciata è persa" l'ho sempre riferito a tutte le variabili che compongono un'esistenza; capite bene che ce n'è da riempire tutta un'eternità.

Persino l'esistenzialismo ateo di un Sartre ha dovuto fare i conti con il retaggio della tradizione Cattolica, con tutte quelle postille che inzaccherano di pentimento ogni personalissimo codice morale e che risultano essere così invasive - da qualche secolo a questa parte - per la (in)coscienza dell'uomo occidentale. Ciò è particolarmente evidente nelle sue prime produzioni drammaturgiche.

Se con "Le Mosche" - bizzarra rivisitazione de le "Coefore" di Eschilo - Sartre dipinge il microcosmo di una piccola comunità di montagna dell'Antica Grecia in cui l'espiazione del peccato originale (l'assassinio di Agamennone) è pietra fondante di una nuova religione e viene sublimato grazie al senso di colpa di ogni cittadino che sistematicamente confessa in pubblico ogni sua piccola/grande miseria quotidiana, è piuttosto su "Porta Chiusa" - Atto Unico la cui prima è stata nel '44 - che voglio soffermarmi.

Una stanza anonima con poltrone e divani (ma senza specchi e finestre), un non ben definito busto in bronzo, un tagliacarte, tre personaggi (un uomo e due donne) totalmente estranei l'uno per gli altri, un ambiguo valletto che li accompagna in loco e una porta chiusa: ecco l'inferno secondo Sartre.

E, sia ben chiaro, non un inferno metaforico; sin dalle prime battute si comprende che si tratta proprio di tre trapassati e che, dopo lo sbigottimento iniziale, sono perfettamente consci della loro situazione.

E allora la giostra può finalmente cominciare a girare.

Sì, perché se anche non si sono mai conosciuti in vita, questi tre sembrano proprio fatti per stare insieme. Niente graticole, nessuna tenaglia o forcone o Toro di Falaride; la tortura che infligge l'inferno sartriano è esclusivamente di ordine intellettuale e morale.

Ognuno di loro è vittima e carnefice, ognuno è lo specchio fedele (perché, in effetti, metterne di vetro nella stanza?) delle meschinità dei suoi compagni di sventura e questo continuo gioco al massacro viene innescato di volta in volta da inezie che hanno una risonanza esplosiva in quell'ambiente così claustrofobico e così privo di speranza. Un tic nervoso, una parolina fuori posto o un gesto fraintendibile è tutto ciò che serve a mettere in moto il meccanismo infernale.

Viene da pensare ai futuri Vladimiro ed Estragone che in "Aspettando Godot" riempiranno la scena con i loro battibecchi e numeri da avanspettacolo apparentemente privi di senso, ma, se i personaggi beckettiani troveranno pur sempre un qualche conforto dalla loro compagnia, in Sartre è tutto un arrotar di artigli e un lacerar di carni. Beckett inoltre ha sempre teso a presentare i suoi paladini attraverso un grado di abiezione e disperazione ai limiti dell'umano (vedere il ciclo delle "Dramaticules"), mentre i protagonisti di "Porta Chiusa" - per quanto in vita si siano macchiati di tradimento, viltà varie, infanticidi e provocati suicidi - ostentano una certa indifferenza per i loro peccati e ne parlano con distacco: se fossero soli in quella stanza c'è da scommettere che non soffrirebbero neanche per un secondo.

E invece la giostra continua a girare e i tre si calpestano senza sosta andando sempre più a fondo nelle sabbie mobili della loro interdipendenza. Una stasi totale simile a quella del protagonista de "La Nausea", una situazione senza via d'uscita conosciuta benissimo dai personaggi delle novelle de "Il Muro".

A ben guardare, se più in generale si sente anche l'eco dello Strindberg più Naturalista per la brutalità dei dialoghi e il progressivo inabissamento morale, nel particolare corre alla memoria soprattutto quello de i "Creditori" per l'annesso minimalismo scenico. Eppure mi pare ci sia una differenza fondamentale: Strindberg è innanzitutto un drammaturgo, Sartre invece è un filosofo. Se in Strindberg schegge di brucianti verità scaturivano quasi loro malgrado dalla potenza delle sue pièce, in Sartre pare rinvenibile un lavoro aprioristico che direziona chirurgicamente il lavoro il quale, se perde in forza d'urto, guadagna in precisione tematica.

E la giostra continua a girare. E poi, improvvisamente... Sorpresa! Proprio nelle ultime scene i personaggi scoprono che la porta si può aprire: un corridoio infinito, altre porte chiuse e sicuramente altri dannati.

Uscire? Per andare dove? Per fare che? Resteranno in quella stanza a torturarsi per l'eternità ognuno legato all'altro, ognuno comprendendo infine che "l'inferno, sono gli altri".

NOTA: che io sappia non esiste in italiano una edizione di "Porta Chiusa" tradotta singolarmente. È sempre accorpata da "Le Mosche", l'altra pièce "giovanile" di Sartre che (per quanto l'abbia un pochino sfiorata) necessiterebbe di una pagina dedicata (come molto altro del teatro di Sartre del resto).
In realtà, quindi, avrei recensito solo metà del libro in questione: sappiate perdonarmi.

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