Che dire, delle due l’una: o il caldo di questi giorni ha sciolto definitivamente gli ultimi neuroni rimasti avviandomi verso una precoce demenza senile, oppure quest’ afa gargantuesca mi fa scorgere nuove possibilità; bizzarre associazioni mentali causate dalla sofferenza che, artaudianamente, spalanca finestre laddove prima non vedevo altro che fondali bianchi.


In questa stasi delirante/”illuminata” ho constatato che la parabola artistica di Jim O’Rourke assomiglia, per certi aspetti, a quella di Ivan Sergeevic Turgenev, grande scrittore russo di fine Ottocento.


Entrambi non originalissimi nei loro lavori (superati per innovatività e profondità da quelli di diversi loro contemporanei), rimangono comunque assolutamente degni di nota se ci focalizziamo sulla loro cifra stilistica. Quello che hanno, e che costituisce il quid delle loro opere, è il “tocco”.


La prosa di Turgenev era vellutata, di una raffinatezza pittorica; pennellate di un cromatismo unico che rendevano interessante persino la conversazione tra due ottusi muziki russi mentre agganciavano le stanghe di una sgangherata trojka.


La sonorità di O’Rourke è profumata, speziata; un tocco che lascia nell’aria un sentore peculiarissimo, una specie di fragranza che rimane percepibile ancora per qualche tempo dopo che abbiamo tolto un suo disco dal piatto.


Disengage” è un album del Jim prima maniera, quello della sperimentazione sonora dove l’elettronica aveva un posto di primo piano; un lavoro mastodontico spalmato su due dischi, ognuno con una lunga traccia divisa in più movimenti.


Nel lento crescendo del drone iniziale si fa strada un brulichio di dettagli sempre più vividi ed articolati; una ricca spuma di sovraincisioni che si materializza dal regno del sogno per divenire realtà. Pare di osservare un ramo di ciliegio partendo da lontano per scoprire, avvicinandoci gradatamente, tutta le meraviglie notabili solo a corta distanza; le scanalature dei petali, le nodosità scure del legno, qualche ape che vola tra i pistilli e verdi foglioline smozzicate qua e là dal becco di rondini di passaggio.


Nel secondo movimento l’atmosfera si fa inquietante e carica di tensione. Qualcosa fluttua sopra di noi, stride alla ricerca di una frequenza adatta a materializzarsi; si contorce e si dimena per poi assottigliarsi sempre più, lasciandoci soli con le pulsazioni del suo cuore artificiale che ricordano vagamente quei climax “matematicamente” soporiferi che caratterizzano molti lavori di Robert Rich.


Un ambient minimale chiude il pezzo; quel qualcosa è pronto a comunicare con noi e lo fa per bocca di una desolata tromba e di uno struggente violoncello che, sfumando all’orizzonte, si intrecciano in una funerea danza ultraterrena.


Un ronzante bordone elettronico apre il secondo pezzo, luce chiaroscurale. Lo svolgimento crea forme bizzarre; disegni abbozzati dove un flebile sciacquio entra in dissonanza con il segnale puntiforme di un computer di bordo. Coordinate impazzite e navigazione incerta, pulsazioni multiformi che eccitano e disorientano; è possibile che Emma Bovary avesse un suono simile in testa; sono sicuro! Un suono come questo l’ha condotta al termine della spirale rovinosa della sua vita.


E poi un eterno fluire, una densa e opprimente sensazione di inevitabile che ci accompagna con la stessa solennità di una processione. Compaiono a poco a poco strani rumori di fondo; bottiglie rotte, cocci rimestati, rottami smossi freneticamente. La mente vuole liberarsi dall’ipnosi e spezzare l’incantesimo sonoro.


Crepuscolari linee di violino chiuderanno il viaggio lasciandoci sul palato un retrogusto agrodolce, come se sapessero di aver provato a confortare ciò che non può essere confortato.


Ecco, questo è il tocco di O’Rourke.


Ora mi ritiro nelle mie stanze, qui ci sono trentasei gradi all’ombra!

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