Il significato del fare grande cinema è tutto qui: riguardo questo film per la decima volta e sono curioso, non sto nella pelle, bramo di impazienza, sono quasi affamato di vedere come si svilupperà la scena. Non mi basta mai, la visione. Ogni volta scopro un dettaglio diverso, ogni volta ne soppeso le infinite sfaccettature, il taglio delle inquadrature, le scelte di montaggio, i sospiri degli attori perfino. Scavo più a fondo ed è come se vedessi molte cose per la prima volta: a ogni visione corrisponde una pellicola se non del tutto, almeno un po' diversa. Riscopro la trama con occhi differenti, e quelle morti così truculente sono per me morti nuove, nuovi traumi. La potenza dell'arte fa rivivere e morire ancora quelle persone, infinite volte, in una scansione del tempo che è ciclica, una vertigine verticale.

C'è uno spirito maligno che aleggia sulle vicende di questo film. Un senso di caos, un'entropia ineluttabile, una divinità algida che dispone a suo piacimento delle vite degli uomini. Uomini sferzati dalla violenza, che si arrabattano rotolandosi nel fango della società, che muoiono di sete, soli e abbandonati, che stringono i denti per sopravvivere alle pallottole che collezionano sui loro corpi. Uomini che si arrangiano come possono per curarsi le ferite, medicandosi con mezzi di fortuna o rubando farmaci per lenire il dolore, superare le lacerazioni e continuare a farsi la guerra, ammazzarsi senza un ripensamento che sia uno.

Non ci sono buoni o eroi. Ci sono le forze dell'ordine che assumono la connotazione di tristi testimoni tardivi, piegati dalla vecchiaia o rimbambiti dalla giovinezza. Commentatori incapaci che arrivano sui luoghi dei crimini sempre troppo tardi e non possono fare altro che dipanare le loro lamentazioni inutili per un mondo che gli è palesemente sfuggito di mano. Moralisti la cui adesione alle regole porta a un nulla di fatto, a una fine miserrima, come sottolinea Anton Chigurh. I racconti dello sceriffo Ed Tom Bell non danno consolazione, semmai certificano l'amoralità del mondo.

Poi c'è il cittadino qualunque, Llewelyn. Scaltro e freddo quasi quanto il suo nemico, non agisce contro la legge ma semplicemente ne ignora la dimensione morale, nel semplice intento di ricavare denaro con furbizia e senza passare troppi guai. Un avventuriero di frontiera, che non empatizza nemmeno con la moglie e dimostra di destreggiarsi bene con armi e inganni. Non crede nei valori della società, finge di farlo per non smagare l'illusione della povera e ingenua consorte (i cittadini onesti). È preda ma anche predatore, non si tira indietro se c'è da uccidere. È il sogno americano, il pioniere, il reduce che le istituzioni implicitamente appoggiano, un cowboy lanciato verso la sua stessa autodistruzione che nessuno è in grado di fermare, in nome di una presunta libertà che in fondo è solo danno reciproco.

Infine, il fascino perverso del male. Il genio, l'indifferenza completa rispetto al valore della vita altrui. Senza lacci e lacciuoli di tipo etico, Chigurh si muove rapido e indisturbato, coglie indizi, individua gli elementi di debolezza dell'ordine costituito e fa leva su di essi per il suo personalissimo tornaconto. Psicopatico, alieno, glaciale dispensatore di morte, ne seguiamo i movimenti da un punto di vista spaventosamente ravvicinato. La monetina che sceglie al suo posto è il disvelamento del suo sistema di valori che in fondo non è poi così astruso come potrebbe sembrare. Le mosse di Anton non sono folli o assurde, rappresentano semplicemente l'estrema conseguenza di una mentalità utilitaristica che individua di volta in volta la scelta più economica e lineare per sé, la strada più logica per amplificare le sue possibilità di successo. Se la vita altrui non ha valore, perché Anton non dovrebbe disporne? Quando la morte di qualcuno non risulta necessaria ai suoi scopi, lui non decide, lascia che sia la moneta a farlo. Quelle vite non esistono, sono oltre il suo orizzonte esistenziale.

In questa lotta mortale, tuttavia, non sono solamente gli uomini a decidere il futuro con le loro azioni, non ci sono eroi, il mondo è profanato, stuprato dalla bramosia, e privo di qualunque principio di senso od ordine. La mostruosità collettiva figlia di questo disordine diventa il vero nemico, una piovra colossale, proteiforme, invincibile o quasi. Ogni momento è quello buono per morire, perdere tutto, oppure farcela. I dettagli sono sempre decisivi, ma non bastano per assicurarsi la salvezza.

La grande matassa metaforica non si disperde mai in vaneggiamenti astratti, ma assume le forme di una disputa tra menti raffinate a chi compia la mossa più astuta, sempre attraverso l'osservazione e la manipolazione di ogni minimo dettaglio: il valore dell'intelligenza è l'unico che perdura, ma piegato a fini puramente personalistici.

Poi, dopo il tumulto delle sinapsi, le pugnalate del dolore, il vomito e il sangue, i cadaveri incolpevoli in strade lugubri o alberghi anonimi, dopo tutta questa oscenità, le regole di questo diabolico paese chiedono un tributo ulteriore. È la deità malevola di prima, l'entropia che irrompe e chiede un pegno in vite umane. Tutto è stato inutile, e non c'è pace nemmeno per gli innocenti, la povera moglie che deve subire fino in fondo le conseguenze della protervia e dell'ostinazione del marito, la cui avidità e incoscienza portano dolore e orrore anche oltre il limite ultimo della sua stessa vita.

Questo è un film che non si esaurisce mai, non si consuma, non invecchia, non stanca, perché unisce alla perfezione delle forme, all'asciuttezza delle geometrie, alla precisione degli sguardi registici, una forza espressiva che lascia attoniti, una violenza raggelante che si esprime attraverso i volti e i corpi, gli oggetti e gli scenari. Sembra quasi di camminare insieme ai nostri sulle assi di legno di quegli albergacci, temendo un cigolio di troppo, preoccupati di non fare rumore. Ci laviamo nell'acqua della vasca le ferite e proviamo sollievo, ogni goccia di sangue versato ci costa un po' di dolore, e non riusciamo a staccare gli occhi dal volto luciferino di Javier Bardem. La sua bombola ci ossessiona, i suoi occhi balenano nelle stanze con una calma terrificante. La pacatezza del demonio. Ed è quasi assurdo, ma in fondo geniale, che in qualche modo sia lui il vero protagonista, perché Llewelyn non ha alcun privilegio narrativo rispetto a Chigurh.

Lo stesso occhio dei Coen si scopre scevro da pregiudizi, osserva disincantato la macelleria quotidiana che è del mondo e fatica sempre più a trovarne un significato, un appiglio, se non quello triste, arcaico ma attuale, che vede vincere il più forte. Ed è sempre un gioco a somma zero.

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