Ogunde varere. Preghiera agli dèi.

Questo scavo nelle radici della madre Africa —in questa amalgama di sangue, sacro e terra— è ora John W. Coltrane. E questa l’ultima sua parola.

E intanto nel suo fegato rodeva, erodendo e scavando dentro, quell’ospite indesiderato, quell’impasto di dolore e di morte. Sempre quel fuoco, sottile e possente, ma un dannato fuoco distruttore soltanto.

(la vita è ora la cruna d’un ago, sempre più sottile)

1967.

La primavera nel New Jersey, quell’anno, tardava ad affacciarsi. Lì, al Van Gelder Studio, Trane tracciava nuovi e vaghi percorsi sul suo foglio.

(gli ultimi, ahimè)

Una pastorale per due flauti, antica ed inquieta, che subito si scarabocchia in un andamento questuante. E le cosmiche dissonanze, portate al loro più estremo confine (di confine prive), erano ora e per sempre abbandonate a loro stesse, buttate là in un angolo. L’ardore cedeva alfine il passo all’attesa. Forse, quale che fossero i tempi di questo anelare all’eterno, s’ammutoliva il suo livore.

Forse.

Una più misurata espressione, foriera di sonno e d’oblio, s’affacciava ora nella voce altera e serafica di Trane; ma cos’è l’espressione se non un ardore rattenuto e dipoi espresso, con forza cavato fuori? Un dispiegarsi sconfinato, che s’apre, con l’aduso tramestìo, sempre su quel crinale tra l’inesprimibile e il dire ardente. La dissonanza, il clangore, è sempre lì. E un calore sottaciuto, ancestrale e terribile, si fa avanti quasi a dare un volto a ciò che non ha volto.

Un calore di grembo materno, un'offerta impetuosa e tenue.

Un fuoco per sempre acceso.

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